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Tutto in una Notte di John Landis – #Venezia 74 – Venezia Classici

Nell’ambito dei classici del cinema restaurati della 74esima mostra del Cinema di Venezia verrà presentato anche “Into the night – Tutto in una notte”, capolavoro dimenticato di John Landis, tra omaggio e dissacrazione, uscito nel 1985, una data fondamentale per il cinema americano "nonstop" e "Fuori Orario".

“Into the night” è un vero e proprio frullatore di generi e stili che rende perfettamente l’idea di cinema che Landis ha sviluppato lungo la sua lunga carriera;  solida nelle sue basi tra omaggio alla Storia e utilizzo del gioco come forma liberatoria e dissacrante.

Ed Okin (Jeff Goldblum) soffre ormai da tempo di insonnia e questa lo porterà a vagare una notte senza fine per le strade di L.A fino ad incrociare il suo destino con quello di Diane (Michelle Pfeiffer) nel parcheggio di un aeroporto, incontro-scontro che darà l’avvio ad una serie di vorticosi eventi, tra l’action, lo slapstick e il surrealismo, tutto per un pugno di pietre preziose contrabbandate appartenenti ad un imperatore persiano.

Un approccio ai generi che proviene direttamente dalla Hollywood degli studios, quella classica rispetto alla quale Landis ha vissuto il crepuscolo, quando nel 1967 consegnava la posta sui set potendo entrare in contatto con personalità del calibro di Hitchcock, Capra, Stevens, Wyler, Ford, ma che forse può essere rintracciato ancor più indietro nel passato, quando nel ’58 fu spettatore al cinema del colosso in technicolor “The 7th Voyage of Sinbad”, che con i suoi effetti speciali in stop-motion consacrò il mito di Ray Harryhausen: una vera e propria esperienza, la prima, legata al significato di sospensione dell’incredulità di fronte all’assurdo, un “contratto” che sta alla base del rapporto cinema-spettatore e la cui fluidità e circolarità è divenuta oggi, con la saturazione delle immagini, passaggio univoco e assodato privo o quasi della capacità di stupire e di far stupire.

Una modalità che certamente John Landis vuole tenere lontana da sé a tutti i costi sin dall’inizio, dal suo omaggio ai monster movies anni ’50 con “Slock” (1973), discesa pura nell’ambito dell’incredulità, fino a “Burke & Hare”, black comedy irriverente e scorretta su due saccheggiatori di tombe del 19esimo secolo, splendido film del 2010 a tutt’oggi il suo ultimo come regista.

Forse è proprio questa attitudine al gioco che mantiene uno sguardo sulle cose sempre aperto e nuovo, insieme alla sua capacità di individuare lo spirito di cose e persone.
Ben oltre la pura cinefilia, il carosello di cameos scelti da Landis per “Into the Night” (da David Cronenberg a Rick Baker, passando per Don Siegel, Roger Vadim, Johnatan Demme, Carl Perkins e David Bowie ), ha lo scopo certamente di rendere omaggio ad alcune figure cardine che  hanno lasciato una traccia nell’immaginario del regista; pur mantenendone intatta l’aura mitica, riesce a trasportarli in una dimensione più autentica, ponendo al centro la “leggerezza” come gesto e disposizione d’animo, capacità in grado di rovesciare  ruoli e i stereotipi.

Impossibile non notare questo rovesciamento nel misterioso sicario inglese Colin Morris/David Bowie, figura che pervade e ridisegna i tratti di ogni ruolo che l’artista inglese si sia trovato ad interpretare, mettendo di volta in volta in discussione la propria identità, fondata sulle apparizioni e sparizioni del proprio corpo. Nel film di Landis,  quando improvvisamente si materializza di fronte ad uno shop losangelino dove Ed sta aspettando Diane, non possiamo non pensare a quello che sarebbe accaduto durante i salti temporali dell’agente Phillip Jeffries in Fuoco Cammina Con Me e di nuovo nella terza serie di Twin Peaks,  dove evanescenza e immaterialità dissolvono i confini certi della persona per privilegiare quelli di un performer libero e senza confini.

Se “Into the night” rimane un “classico” della celebrazione e dello scardinamento del genere, risulta ancora attuale per quanto riguarda la mobilità dei personaggi, basta pensare a come definisce il ruolo al femminile di  Diane (Michelle Pfeiffer). Descritta in maniera autentica e non ingannevole, Diane è una donna dalle molteplici sfaccettature che inizialmente “imbroglia” la matassa degli eventi, fornendone poi la chiave per sbrogliarli.

Un’autenticità appunto che batte tutti gli odierni “fake feminisms” pubblicitari, rileccati e ipocriti, pronti a vendere empowerment a colpi di motti e iconografie vuote.

Una relazione quella con l’immaginario che è al contrario ben individuabile e iconica, nel film di Landis come in molto altro cinema statunitense degli anni ottanta, laddove la relazione dell’individuo con la città, soprattutto nella sua mutazione notturna,  viene posta al centro.

Into the night incarna appieno quella atmosfera ‘notturna’ attraversata da alcuni film dello stesso periodo, come il seminale  “After Hours” (1985, non a caso lo stesso anno) o quattro anni prima, “One from the Heart”.

Intimi, raccolti, imprevedibili e liberi dalla tirannia del racconto: al di fuori degli studios c’è l’incertezza della notte, certamente eccitante e aperta a mille possibilità.
C’è infatti un richiamo reciproco tra i film di Landis e Scorsese che sembrano raccontare la stessa notte, uno dalla west coast, l’altro dalla east, laddove i protagonisti sono intrappolati nell’oscurità senza fine, con le uniche luci dei lampioni ad illuminare i nuovi complessi urbani, un’immagine che riporta ad una certa tradizione del noir, della giungla urbana inestricabile e imprevedibile, ma anche alla dimensione onirica che svela il subconscio e trasfigura la temporalità della città notturna.

Mentre nel caso di “After Hours” Paul Hackett (Griffin Dunne) scivola sempre più in un incubo senza possibilità di uscita, in “Into the Night” Landis gioca maggiormente con gli aspetti combinatori della screwball comedy, elemento che in ogni caso, per il proliferare di situazioni e personaggi, accomuna ancora una volta i due film, sotto il segno di un cinema “nonstop”, senza soluzione di continuità, tra narrazione in movimento e movimento del racconto che non approda e non finisce (mai). 

RASSEGNA PANORAMICA
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Rachele Pollastrini è curatrice della sezione corti per il Lucca Film Festival. Scrive di Cinema e Musica
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