Il minimalismo narrativo che Sven Bresser sceglie come sguardo sulla realtà, rivela connessioni specifiche con la pittura olandese sin dagli esordi nel cinema breve. Il corto che fa da ponte tra gli studi universitari a Utrecht e i primi riconoscimenti internazionali è Cavello, esplorazione dell’adolescenza attraverso la disamina dell’intimità emotiva. Questa dimensione non veicola l’indagine psicologica dei personaggi, ma frappone una distanza materiale tra il punto di vista e l’inerte immobilità della realtà dove il gesto e il corpo si muovono. Sin da questa fase sperimentale, che è costituita da tre corti e un film per la televisione, realizzati tra il 2015 e il 2021, il regista olandese ha inseguito la ieraticità di certo cinema scandinavo, per affinare un realismo di tipo poetico, dove viene evitata l’introspezione assegnata alla maieutica del dialogo, per privilegiare una ricerca interiore provocata dalla relazione dei personaggi con il paesaggio.
Reedland, suo primo lungometraggio per il cinema, estremizza queste premesse deterritorializzando le istanze di un thriller negato, nello spazio della contemplazione quotidiana.
Il corpo di una bambina trovato nei campi dove il contadino Johan è solito lavorare, viene filmato con un’attenzione al dettaglio che incorpora l’orrore nei cicli di lavoro che legano una comunità alla terra e ad un’economia circoscritta. Per quanto l’incipit ricordi quello del secondo lungometraggio di Bruno Dumont, L’Humanité, lo sguardo di Bresser risulta meno interessato all’interferenza brutale tra l’organicità dei corpi e la fissità del paesaggio rispetto al collega francese, e più orientato a definire i ritmi di una ritualità quotidiana entro l’inerzia dell’involucro naturale.
Non è un caso che Bresser stesso si sia preoccupato di definire i confini della sua ricerca estetica, citando l’artista olandese Armando, come principale ispirazione per il film.
Quella di Johan nella sua comunità di riferimento, è un’ossessione per la verità che non segue i meccanismi della detection, ma li decostruisce assegnando a tutto ciò che lo circonda una mancanza di neutralità potenziale.
Il concetto che desume dall’artista di Amsterdam è quello di “paesaggio colpevole”, spazio che delimita i confini della scena e che assorbe le qualità del male, incorporandone le tracce. La contemplazione allora non conduce verso l’espressione della bellezza, quanto al concetto di natura indifferente, il cui silenzio trattiene tutte le gradazioni dell’ambiguità.

Ciò che per Armando è connesso al vissuto storico e collettivo, inclusa la tragedia della Shoah, in Reedland si sposta entro la tensione simbolica creata dal paesaggio rurale olandese, dove i canneti costantemente bruciati da Johan, lo spazio che si spalanca a perdita d’occhio, il tempo materiale di percorrenza delle strade, le giornate interminabili, i dialoghi dilatati nello spazio casalingo, si alternano ad un mal di vivere che viene mostrato dal contrasto generazionale di una comunità, irrimediabilmente assorbita e accomunata da una temporalità inesorabile.
I loro volti e i loro movimenti sono essi stessi paesaggi impregnati della stessa designificazione, dove traumi e desideri vengono espressi solo per sottrazione, attraverso una sospensione simbolica e una reiterazione del gesto.
La stessa possibilità che ci si trovi di fronte alla serialità del male, a cui Johan sembra ad un certo punto assegnare un indirizzo certo, è immersa nella ripetibilità stessa delle azioni, rispetto alle quali Bresser mantiene una distanza incolmabile, lasciando che le motivazioni emergano dal tempo dell’inquadratura, dalla riduzione all’osso dei movimenti di macchina e dalla frontalità scopica dell’espressione pittorica.
La tradizione paesaggistica olandese che procede dal XVII secolo viene assorbita, ma deprivata dallo spessore contrastivo di luci e ombre che la caratterizzava, a cui Bresser preferisce un appiattimento dello spettro cromatico.
Per quanto il suo sia un cinema che rischia l’impasse formalista, in una distanza che sembra non prevedere la libertà dell’imprevisto, questa separazione dai soggetti, spesso anti-espressiva, gli consente di attivare una libertà dello sguardo interna all’inquadratura e alla logica del piano sequenza.
Logica che rende complessa la comprensione delle intenzioni legate alle scelte dei personaggi, ma allo stesso tempo, riesce in alcuni momenti a creare un’improvvisa emersione del perturbante quando i gesti della protezione, della cura e dell’attenzione nei confronti dei minori che Johan sembra praticare per difendersi e difendere da una minaccia invisibile, si sovrappongono in modo ambiguo con la forma inconfessabile e inconfessata dei desideri.
Questi vengono espressi con la persistenza e l’orientamento dello sguardo, con l’interpretabilità dei volti e con un riferimento allo sguardo stesso dello spettatore, a cui viene lasciata la possibilità di definire la profonda ambiguità del reale.
Ambiguità che significa potenzialità, possibilità certamente, ma che allo stesso tempo sovrappone le ragioni della protezione con quelle del crimine, come tensione inscritta antropologicamente.
La terra stessa, spurgata dagli scarti, le eccedenze del lavoro nei campi, la sterpaglia bruciata, trattiene tra i numerosi strati degli incendi, una materia nera e magmatica che assume più volte valore simbolico, come fosse un vero e proprio cuore nero da occultare.
Quello di Bresser ha la forza di un cinema potenziale, ma forse ancora troppo ancorato alla definizione di una cornice evidente, pur nel tentativo di trasformarla in un personaggio sottoponibile alla libertà della decifrazione.
Il Trailer di Reedland
Reedland di Sven Bresser (Olanda, Belgio 2025 – 1h 52 min)
Sceneggiatura: Sven Bresser
Interpreti: Anna Loeffen, Gerrit Knobbe, Loïs Reinders, Lola van Zoggel
Fotografia: Sam du Pon NSC
Montaggio: Lot Rossmark