domenica, Novembre 9, 2025

Reflection in a Dead Diamond di Hélène Cattet, Bruno Forzani: recensione

La vertigine cinematica di Cattet-Forzani riattiva ciò che nelle immagini "già viste" non era stato completato, attraverso il riscatto radicale della scrittura. Su "Reflection in a Dead Diamond", nelle sale italiane grazie a Lucky Red

Verrebbe da assecondare l’orizzonte negativo di Paul Virilio dopo i primi minuti di Reflet dans un diamant mort, quando il filosofo francese esaminava gli effetti dell’accelerazione mediatica e ne “La macchina che vede”, ma anche in “Estetica della sparizione”, definiva l’industrializzazione della percezione come flusso che sommerge e non consente di accedere a codici leggibili.

Subire l’immagine allora significherebbe cancellare la distanza critica tra spettatore e visione, nell’alterazione spazio-temporale causata dal superamento di una soglia tollerabile o tollerata.
L’immersione sensibile praticata dai due cineasti francesi attivi in Belgio sin dai loro esordi, raggiunge nell’ultimo lavoro un sovraccarico estremo, eppure più che alla cecità cognitiva, punta a costruire un oggetto libero e mutante, la cui dimensione si avvicina all’idea di visione come potenziale generativo.

All’automatismo ottico delle macchine celibi descritte da Virilio, si oppone allora un’immagine frattale capace di aprire nuove e possibili traiettorie di senso, dove ogni punto dello schermo, ogni piega dell’immagine, contiene il molteplice. Questa porosità lascia filtrare senso, luce e memoria, elementi aperti capaci di innescare variazioni e fratture che invitano alla ricostruzione, non tanto di un plot, ma di più archetipi narrativi, il cui funzionamento reticolare è tutt’altro che semplificato, ma al contrario, disseminato nell’infinito potenziale.

Il film allora non racconta, per rifarsi al Deleuze della “Logica del senso”, ma predispone superfici adatte a germogliare numerosi racconti, prodotti dall’incontro attivo con lo spettatore.
La pluralità degli elementi semiotici del testo, dal cinema di genere al fumetto, dal cineromanzo alle ripetizioni geometriche dell’Optical Art, allargano la prospettiva dalla superficie dello sguardo fino alla materia di un cinema aptico, ricombinato ulteriormente in post produzione dallo scarto che diventa pixel, il frammento puramente ottico che si trasforma in glitch, la materialità virtualizzata, ma anche la virtualità che diventa corpo.

Tre pelli del film, che distanziano lo spettatore e allo stesso tempo lo avvicinano, in un continuo oscillare tra prossimità sensoriale e riflessività dell’immagine.

Se John D. nel corpo di Fabio Testi riflette se stesso sulla spiaggia della memoria, la rievocazione dal crepuscolo della propria vita è in realtà osservabile da entrambi i lati del tempo. Questa dimensione caotica, dichiarata a più riprese anche nei dialoghi del film, soprattutto nella “rivelazione” conclusiva, è ulteriormente indicata dalla sostanza immaginifica del ricordo stesso, già incorporato nell’invenzione tutta attoriale che riconduce continuamente Yannick Renier nell’Inland Empire di un set cinematografico.

Cinetik, l’uomo senza volto preso in prestito da James Whale, da Mario Bava, da Franju, è schermo che brucia, realtà psichica fatta di scarti visivi e grattage che supplica l’auto-rivelazione attraverso il medium cinematografico.

Al contrario Serpentik è pelle prostetica che si squama, corpo slabbrato, latex che respira e pulsa, ferita e squarcio attraverso cui è possibile puntare lo sguardo, per assumersi il rischio di una continua mutazione identitaria.

Oltre al chiaro riferimento all’iconografia femminista della decapitazione, quasi un rovesciamento di alcuni motivi legati alle vittime designate, il film si apre dallo sguardo al tatto. L’immagine-corpo può essere penetrata, attraversata, sfondata, esfoliata. Pelle e squamature prostetiche, dissolvenze formali, giunture visive, elaborano un continuo assorbimento reciproco senza alcun confine netto.
Non si pretende allora un’oggettivazione, perché lo spettatore può essere accolto dentro il campo sensoriale sollecitato.
Porosità dicevo, ma anche nel senso di sopravvivenza che permane dentro l’immagine stessa, sempre abitata da qualcos’altro. Occhi disincarnati e incarnati, incastonati nella roccia, nel vetro, nello strass a specchio dei vestiti.

L’immagine survivante descritta da Didi-Huberman assume una qualità potenziale, ma anche tragica, rispetto alle possibilità del racconto: non possiamo vederla mai tutta intera, perché è costituita da fori, lacerazioni, sfondamenti. Porta in sé ciò che l’ha preceduta e ciò che non ha potuto dire.

Cattet-Forzani in questo senso rilocalizzano le suggestioni meta-cinematografiche fuori delle secche autoreferenziali della citazione cinefila o dell’analisi critica che parla ciclicamente di “cinema che si guarda allo specchio”. Il loro è gesto archelogico dove l’immagine-citazione è di volta in volta sopravvivenza materiale, forma latente, figura che scompone la memoria in un territorio aperto, ancora e di nuovo politicizzabile.

Corpi abitati da altri sottolineavo, dai traumi personali, e il film ne individua numerosi, da memorie bloccate oppure da desideri mai codificati. E se i mille volti di Serpentik sono tracce mai chiuse, da Caravaggio alle sorelle Giussani, i graffi e le code di Cinetik al di là della dimensione segnica, sono squarci temporali, immagini mai completamente finite e quindi confinate ai margini dello scarto visuale.

La vertigine cinematica di Cattet-Forzani riattiva ciò che nelle immagini precedenti non era stato completato, attraverso il gesto iconoclasta della contaminazione, ma non solo, perché questa dialoga necessariamente con l’attuale ecologia dell’immagine digitale, frammentata, parcellizzata, algoritmica.

C’è una riappropriazione combinatoria e rivoluzionaria dei database spontanei o meno che hanno sezionato ed infine normato la Storia del Cinema globale sulle piattaforme di condivisione. Frammenti, reel, motivi, gif, scene cult, segni atomizzati, culto dell’apice, coito interrotto.

Spettri di senso rimessi in circolo attraverso una nuova cartografia emotiva, fatta di traiettorie e risonanze: il riscatto radicale della scrittura.

Reflection in a Dead Diamond di Hélène Cattet, Bruno Forzani (Reflet dans un diamant mort – Belgio, Lussemburgo, Francia, Italia – 2025 – 87 min)
Intepreti: Fabio Testi, Koen De Bouw, Yannick Renier, Maria de Medeiros, Thi Mai Nguyen, Céline Camara, Kezia Quintal, Sylvia Camarda, Sophie Mousel, Barbara Hellemans, Hervé Sogne, Manon Beuchot, Sébastien Landry (II), Aline Stevens, Olivier Bisback, Nilton Martins, Luigi Gargiulo, Jacopo Bruno, Vanessa Compagnucci
Fotografia: Manuel Dacosse
Montaggio: Peter Bernaers

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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