venerdì, Aprile 19, 2024

Roman Polanski: da Venere in pelliccia …a ritroso

Polanski ha sempre giocato con la morale borghese, sfidandola in alcuni casi, mettendone in risalto le contraddizioni, le debolezze, le ipocrisie latenti, pronte ad esplodere. Il punto di partenza è sempre una situazione ordinaria: la gita in barca, il tentativo da parte di due coppie di sedare i problemi tra i rispettivi figli, la scelta dell’attrice protagonista per una rappresentazione teatrale. In questi microcosmi non si abbatte l’imprevisto, il fattore esterno; il cambiamento è dato da un graduale processo di sfaldamento delle certezze causato dall’incontro/scontro con altri individui. Il tono è quello dissacrante della farsa, reso ancora più manifesto dal distacco con il quale Polanski segue i suoi personaggi, uno sguardo che marca la sua estraneità più di quanto è in realtà la distanza tra la macchina da presa e i personaggi stessi, costretti nell’angustia dello spazio chiuso. E se negli ultimi film i valori si sfaldano, oltre alla vena dissacratoria che si abbatte sui costumi borghesi si rinnova anche un universo semiotico che ha sempre fatto del rigore formale e della classicità dei capisaldi imprescindibili. Lo stile, all’apparenza, può sembrare il solito e difatti Polanski esplora lo spazio scenico con la solita maestria, una sintesi di inquadrature fisse e movimenti di macchina che non risentono del limite fisico dello spazio chiuso. Sguardo essenziale che marca la sua distanza dal personaggio/spettatore, che sembra neutrale ma non lo è. Entra in gioco l’ironia, il gusto del grottesco che si concretizza sul piano tematico nello sfaldamento dell’universo psicologico dei personaggi, e sul piano visivo nella ricerca di uno stile che invece, gradualmente, acquista forma e compattezza. È un ossimoro, due piani che si intersecano e danno vita al mondo polanskiano, un mondo al confine tra reale e irreale, un mondo nel quale i personaggi smarriscono se stessi e, assieme a loro, anche lo spettatore subisce un processo di disorientamento.

C’è una sequenza fondamentale in Venere in pelliccia: Vanda, la dea-attrice interpretata da Emmanuelle Seigner, ha ormai compiuto la metamorfosi di Thomas. L’ultimo atto della farsa è costringerlo a travestirsi da donna per umiliare e rovesciare il suo presunto maschilismo, il suo punto di vista ancorato a certezze oramai improponibili, racchiuse in un libro scritto centocinquant’anni fa. Attorno al gigante cactus di scena, simbolo fallico al quale Thomas è legato (fisicamente e spiritualmente), Vanda danza come una dea greca, come un personaggio della commedia classica, compiendo un rito che svela il senso d’impotenza del personaggio maschile. A questo punto, per la volontà autoriale, non c’è altro da vedere. La macchina da presa indietreggia con un’altra carrellata, la stessa dell’inizio del film, ma con movimento inverso; le porte del teatro si aprono e lo spettatore torna nel mondo esterno, lungo il viale alberato ancora scosso dal vento e dalla pioggia. Eccolo il filo rosso che riporta idealmente alla scena finale de Il coltello nell’acqua. I due coniugi tornano dalla gita in barca, la moglie confessa al marito il suo tradimento ma lui non crede alle parole della donna e scansa con fastidio la verità. Eppure, come dimostra il suo sguardo perduto, ben diverso da quello spavaldo e arrogante delle prime scene, le sue certezze sono ormai sgretolate.  La macchina da presa è ferma, impassibile, davanti ai due, come una sentenza. Lo stile è cambiato, il significato no: perché nel cinema di Polanski nulla è lasciato al caso, e un uomo che accetta di travestirsi da donna e una coppia in crisi sono due facce della stessa medaglia. Così come lo spettatore, che non può sfuggire di fronte alla sua immagine riflessa sullo schermo. La rappresentazione del reale non solo è più vera del reale, ma spesso è più conturbante e ambigua. E per dirla con le parole dello stesso Polanski, “Io non voglio che lo spettatore pensi in questo modo o in quell’altro, voglio solo che non sia sicuro di niente. È questa la cosa più importante: l’insicurezza”.

Michele Nardini
Michele Nardini
Michele Nardini è laureato in Cinema, Teatro e produzione multimediale all’Università di Pisa e ha alle spalle un Master in Comunicazione pubblica e politica. Giornalista pubblicista, sta maturando esperienze in uffici stampa e in redazioni di quotidiani, ma la sua grande passione rimane il cinema

ARTICOLI SIMILI

CINEMA UCRAINO

Cinema Ucrainospot_img

INDIE-EYE SU YOUTUBE

Indie-eye Su Youtubespot_img

FESTIVAL

ECONTENT AWARD 2015

spot_img