Tornano per la seconda volta a Bucha, Mila Teshaieva e Marcus Lenz, per proseguire la loro ricerca sugli effetti dell’invasione e delle violenze russe sui civili ucraini. Rispetto a “When Spring Came to Bucha“, dove i due registi si focalizzavano sull’alba dopo la devastazione, in Shards of light il caos lascia spazio all’ipotesi della ricostruzione, non solo in termini materiali, ma come processo che coinvolge l’identità e la reputazione di un intero sistema collettivo.
La staticità delle rovine che risucchiava gli individui nell’estensione dell’ambiente violato, lascia maggiore spazio ai gesti, le azioni e la caratterizzazione di alcune storie personali.
Queste emergono dai segni e dalle cicatrici ancora visibili, nelle case da ricostruire, nei buchi che crivellano un soffitto, ma anche nei gesti quotidiani che rivelano una linea di demarcazione oltre la quale non è più possibile guardare indietro.
L’attività didattica che introduce il film, nel mostrare un momento di educazione al movimento e al controllo espressivo del corpo destinato agli adolescenti, è già incorporata nell’elaborazione di un trauma. Questo lo si può superare attraverso la capacità di costruire senso insieme, nella ridefinizione dello spazio scolastico tagliato in due dalla presenza costante della guerra.
Bucha è quindi individuo urbano, dotato di organi sociali danneggiati oppure messi a dura prova dall’urgenza del conflitto. Sono i rituali connessi ai gesti della quotidianità che possono attivare una ricostruzione prima simbolica, poi concretamente legata al corpo collettivo in transizione.
Proprio per questo la relazione tra spazio e individuo inverte priorità e polarità del film precedente, anche quando si spalanca il vuoto intorno alle persone e alle loro storie individuali.
Dallo spaesamento di fronte ad un tessuto urbano profondamente lacerato, lo sguardo si concentra su quello psichico, dove i brandelli di una comunità fratturata vengono rappresentati attraverso l’attenzione alle storie minime, scelta osservazionale che accumuna molti documentari prodotti in Ucraina negli ultimi anni, non solo per una necessità contingente, ma come segno di vitale prossimità e collaborazione tra un’industria che si reinventa ogni giorno e la collettività di cui fa parte.
Il Cinema, drammaticamente, segue l’instabilità del reale e cerca di ricostruire significato contro l’annullamento forzato di una pulsione genocidiaria. Quel rapporto di fiducia che Teshaieva e Lenz stabiliscono con le persone coinvolte attraverso un’immersione empirica, si trasmette nei movimenti di macchina, mai invasivi, ma vicini al cambiamento emotivo dei soggetti.
La giovane Olenka, la cui evoluzione viene osservata a partire da “When Spring came to Bucha”, esperisce la rinascita nella distruzione attraverso il ricordo del ventre scolastico violato e il nuovo ingresso in quello stesso spazio.
Una relazione tra pieno e vuoto che Taras sperimenta ogni giorno quando ascolta le voci disincarnate della moglie e dei figli, al sicuro fuori dalla città. La loro presenza risuona nelle stanze vuote della casa, dove l’uomo cerca di mantenere la vitalità del contatto nella desolazione generata dalla violenza.
Una desolazione che accumuna tutti i sopravvissuti ad una strage in uno spazio di transizione, non più come prima, ma ancora potenziale.
Ed è dello stesso segno l’esperienza di Ludmyla con il suo giardino, elemento residuale di un’abitazione distrutta, pezzo di terra da rimettere in vita nonostante le macerie.
La mutazione che Shards of light testimonia attraverso la descrizione di una microsocietà, è quella delle forze e delle energie che si muovono all’esterno e all’interno dello Stato di Diritto. Non è solo la tensione ostinata di un paese verso quel modello, contro l’antimateria che da fuori minaccia di ripristinare i vecchi incubi totalitari del novecento, ma sono anche gli ostacoli che si possono manifestare in assetto di guerra quando la coesione sociale è costantemente sotto minaccia.
La storia di Alla e Yuri e quella di Olga, sono accomunabili e rappresentano due tentativi di preservare la propria dignità, tra memoria e reputazione.
I primi, rispettivamente madre e figlio, attraversano un lento e doloroso iter giudiziario per il riconoscimento di un crimine di guerra che ha causato la morte del marito e padre per entrambi. Il succedersi di udienze, dati da raccogliere, confronti con avvocati e testimoni, genera una distanza percepibile tra lo stato, gli organismi di giustizia internazionale e il cittadino stesso. Una dimensione descritta in qualsiasi altro contesto dove il ricorso agli strumenti della giustizia si infrange nell’intrico di occorrenze burocratiche, ma che viene acuita da quell’esperienza del vuoto che accompagna le comunità vissute sotto occupazione.
Soffermandosi sui volti, i dettagli e i movimenti del corpo e quello spaesamento che rende improvvisamente irriconoscibile i propri luoghi nel cuore della condivisione urbana, Teshaieva e Lenz elaborano un’elegia della dis-appartenenza affettiva, dove il luogo a cui ci si sente legati non coincide più con una relazione conosciuta. Questa topofilia ferita, dove l’amore e i legami non sono in discussione, ma profondamente trasfigurati dai segni dell’orrore rimasti sugli elementi materiali, obbliga a rinegoziare con nuovi rituali il desiderio e la memoria.
Quella di Olga è forse la storia che più di tutte mostra questo cortocircuito. Amata dalla comunità minima del condominio come persona di grande generosità, deve affrontare l’accusa di collaborazionismo da parte dello Stato, secondo un sospetto infondato che connette l’ipotesi del tradimento alla necessità di garantire la propria sopravvivenza durante l’occupazione. Il vuoto creato dalla paranoia, sospeso tra gli interrogatori delle autorità e la sua relazione con un pezzo di comunità, crea l’improvvisa rottura di un patto di fiducia, ma acuisce contemporaneamente la sua capacità di rimanere connessa con il proprio mondo.
Frantumi di esistenze dove il rischio di sconfinamento con le forme di una presenza spettrale, viene preservato dalla potenza del gesto quotidiano e dalla riscrittura tragica eppure ricca di speranza dello spazio sociale.
Questa ricomposizione paziente trova strade e forme che potremmo considerare aberranti, se non rappresentassero la necessità di piegare l’esperienza dello spazio urbano alle esigenze di una comunità che resiste. Il segmento conclusivo che introduce la presenza delle mine antiuomo nel quotidiano educativo dei bambini e dei ragazzi ucraini della città, è tra le più inquietanti e potenti del film, non solo per il valore testimoniale, ma per la carica simbolica ed epistemologica, quella della didattica della guerra interiorizzata nello spazio collettivo. Un’educatrice insegna ai bambini a riconoscere, evitare e segnalare ordigni esplosivi disseminati nel paesaggio, in parchi, bordi stradali, aree rurali.
La pedagogia della guerra si infrange con le conoscenze empiriche dei ragazzi, abituati a vivere quegli spazi con assoluta libertà, senza doversi preoccupare, fuori dai confini concentrici dell’aula, delle uniche possibilità centrifughe. Viene in mente il Foucault di Sorvegliare e punire dove il corpo è descritto come entità adattabile allo sguardo della minaccia. Lo spazio del gioco diventa pericolo invisibile, l’apertura dell’orizzonte e la frattura liberatoria del verde nel cemento, luogo altrettanto insicuro.
La frammentazione comunitaria, emotiva e individuale che Shards of Light mostra, diventa morfologia di un luogo inconoscibile e imprevedibile dove il trauma dell’occupazione muta ed entra nel tempo ordinario, incorporandosi nelle scuole, diventando lessico codificabile, penetrando i gesti e le abitudini dei bambini. Se la guerra contemporanea, come diceva Paul Virilio, si gioca nello spazio della percezione, il film di Teshaieva e Lenz mostra questa mutazione cognitiva in varie direzioni, dove la luce può ancora penetrare dalle ferite della città.