Tenerezza e dolore convivono nel nuovo film di Joachim Lafosse, il più intimo e personale della sua filmografia, nato dall’esigenza di raccontare un frammento della propria adolescenza, così da ricongiungersi all’amara leggerezza che caratterizzava i movimenti e l’equilibrio precario di Les intranquilles, rispetto alla durezza chirurgica del precedente Un Silence.
E se il primo evidenziava il desiderio di fuga dalla cornice domestica, nell’ansia di liberare tutte le pulsioni, altrimenti incontenibili, nello spazio aperto del paesaggio, Six jours ce printemps-là, punta a definire il nido casalingo come approdo necessario per il benessere dei figli.
La casa è uno spazio svuotato, attraversato dalle ombre di una separazione in corso ed è capace di contrarre, nel luogo dell’accoglienza, il suo esatto contrario.
Quando Sana, giovane donna costretta a vivere nei ritmi disumani della routine lavorativa, decide di offrire una vacanza estiva ai figli, sceglierà di recarsi a Saint-Tropez insieme all’attuale compagno e ai bambini, per occupare la villa dei genitori dell’ex-marito, proprio in quella fase di transizione in cui la fine di una relazione sta per coincidere con l’espulsione da tutti gli spazi condivisi e la riassunzione del concetto materiale di proprietà.
Non è un tema nuovo per Lafosse, già declinato in termini diversi ne L’Économie du couple, ma del dissidio frontale che investe l’organizzazione materiale di una coppia dopo la fine di una relazione, rimangono le tracce tangibili del denaro attraverso gli oggetti, come discrimine spietato che organizza la vita degli individui e li espelle improvvisamente dall’orizzonte protettivo della famiglia.
Tutto l’amore che serve viene concentrato nell’ostinazione del personaggio interpretato da Eye Haïdara e nel suo tentativo di far sentire i figli al sicuro, in uno spazio che ancora potrebbe determinare senso di appartenenza.
Eppure il film è giocato su questo scarto indicibile tra il ripercorrere le radici di un nucleo e la sensazione terribile di doversi nascondere, come clandestini rispetto alle tracce della propria vita.
Quello che è un viaggio nella memoria dei luoghi affettivi, come tutti i ritorni nel tempo e nello spazio delle vacanze, diventa un percorso sul margine della disintegrazione identitaria, dove ogni gesto legato alla libertà dell’infanzia, può corrispondere ad un’infrazione pericolosa, capace di entrare in collisione con la perdita, l’alterazione, la separazione tra ciò che una volta era riconoscibile e adesso sta per diventare estraneo.
Se l’unico appiglio metafisico è l’amore di una madre per i propri figli, l’instabilità rispetto a ciò che circonda un’abitazione, compresi i momenti di scoperta che sono legati all’esperienza del gioco, diventa a poco a poco amarissimo racconto di formazione sulla nostalgia per una totalità perduta.
Ciò che si considerava liberamente “casa”, diventa luogo apparente, con i mobili ancora coperti dalle lenzuola, gli oggetti a cui porre attenzione, la penombra per non insospettire i vicini, il denaro del nonno nascosto in un punto sicuro del garage, una volta condiviso per le emergenze improvvise.
Tutto il lusso delle ville che si articolano dalla collina dove domina quella dei nonni, viene filmato con una luminosità ostile, il paradiso di una classe sociale non più generosa, che difende i propri confini e non considera più l’insolenza infantile come rivelazione vitale.
Sana incontra figure che possono riconoscerla fuori dal recinto della villa, solo come funzione dell’ex-marito. Quando questa funzione si infrange, cambia la relazione tra sé e il mondo, emerge il sospetto e la vacanza diventa occupazione illecita, l’utilizzo di alcune risorse vero e proprio furto.
La casa, luogo spesso antropomorfizzato nel cinema e nella letteratura per stabilire una relazione tra l’ostilità indomita degli elementi e la capacità di organizzarli diversamente all’interno di uno spazio protetto, diventa nel film di Lafosse un involucro dove il ritorno non riesce più a sincronizzarsi con il ricordo e la nostalgia lascia spazio ad una dimensione fragile e improvvisamente fuori fuoco.
Il perturbante che emergeva dalla relazione tra il corpo indomito di Damien Bonnard e la casa come spazio troppo piccolo per contenere le mille personalità dell’uomo in Les Intranquilles, torna in Six jours ce printemps-là come fuori campo capace di risignificare le pareti di un luogo che aveva contenuto gioia e spensieratezza.
Tra l’altro, sempre Damien Bonnard, qui interpreta un personaggio negativamente opposto e simmetrico a quello già citato; il guardiano di una villa che determina il confine tra condivisione e proprietà, spietatamente regolato sulla presenza del lusso come rappresentazione del potere, che anche nello spazio delle famiglie, ha sostituito la necessità della condivisione come esperienza permeabile dei luoghi.
Questi vengono svuotati, letteralmente, da ogni segno di umanità. Non si vedono persone all’orizzonte, solo giardini e piscine, mentre il restar strategicamente nascosti di Sana e dei suoi figli, determina un’irreale e vitale infrazione di quel regime di realtà.
Quando i luoghi non fanno più da ancora è allora giunto il momento di liberarsi, senza alcuna paura, dal giogo degli oggetti, dalla presenza ingombrante del denaro, dalla casa come status.
Anche in questo caso Lafosse punta alla luce del paesaggio e alla libertà della natura, in quell’ultima sosta verso la libertà della spiaggia che Sana offre ai propri figli, dove il concetto di casa prosegue in una dimensione interiore affidata alla forza coesiva materna.
Si potrebbe rileggere allora tutto il cinema di Lafosse a partire da questo film intimo e confessionale eppure attraversato da potentissime immagini dell’assenza dove la leggerezza è sempre il risultato di una negoziazione. Traccia per raccontare la forza e il dolore dei suoi personaggi femminili più controversi, impegnati nelle diverse prove di resistenza rispetto all’ipotesi di famiglia, qualsiasi essa sia, ovvero quel progetto capace di ferire quando è imposto oppure improvvisamente interrotto.
Six jours ce printemps-là di Joachim Lafosse (Francia, Lussemburgo, Belgio, 2025, durata 94 minuti)
Interpreti: Eye Haidara, Leonis Pinero Müller, Teodor Pinero Müller, Jules Waring





