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Somnia di Mike Flanagan: la recensione

Somnia è il deludente film di Mike Flanagan nelle sale italiane in questi giorni, la recensione

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Mike Flanagan ha cercato di lavorare per sottrazione fino all’altro ieri e con Somnia aggiunge alla sua personalissima idea sulla visione troppi elementi in pieno sole, nonostante la fotografia di Michael Fimognari, con lui dai tempi di Oculus, lavori ancora su quelle zone d’ombra care al regista di Salem.

La materia cinefila satura lo sguardo con troppi riferimenti, pur rimanendo quell’interesse per i volti e i dettagli che spostano la bilancia della paura su coordinate introspettive, senza barare sullo scavo interiore dei personaggi, ma rimanendo fieramente ancorato alla superficie dell’immagine. Nessun approfondimento psicologico quindi inteso in senso letterale e letterario, quanto una relazione precisa tra ambiente e volti, primi piani e oggetti. La vasca da bagno, l’albero di natale, la camera da letto, il libro delle farfalle e il volto di Kate Bosworth con-tro la propria memoria, fanno parte di un’antropologia famigliare che trova il suo punto di forza nella trasfigurazione della dimensione quotidiana. Alla continua messa in abisso dei rispecchiamenti in Oculus, ferocissimo squarcio aperto sulla virtualità viene sovrapposta una forma più mnestica legata all’impossibilità di chiudere gli occhi.

Il sogno ad occhi aperti diventa quindi una produzione continua e pervasiva dell’attività immaginale, i cui contenuti non dipendono da cause esterne, ma ne assorbono il senso riproducendosi in forma simulacrale. Il piccolo Cody (Jacob Tremblay) riproduce la realtà mondana assorbita dalle fotografie e da alcuni vecchi video oltre che dal suo personale libro sulle farfalle, mentre sogna ad occhi chiusi induce chi lo accudisce ad un’attività onirica che si svolge durante la veglia.
Un presupposto interessante per sviluppare un racconto sui falsi ricordi, sulla qualità fallace della memoria, sul gioco crudele delle illusioni affettive.

Ma se Flanagan da una parte riesce a minare alla base l’origine dell’amore filiale elaborando le caratteristiche di una figura materna ambigua come quella interpretata dalla Bosworth, tutti i simboli che infestano il film risultano ingombranti e sin troppo chiari, incluso il temibile Mister Cancro. L’elaborazione di un lutto allo specchio dove madre e figlio possano riconoscersi attraverso un’agnizione rovesciata e simmetrica, è il punto di approdo di un percorso sin troppo chiaro ed esplicito. Flanagan non nasconde niente, tutto è illuminato dalla luce che le farfalle emanano, bizzarra incursione fantasy non sempre del tutto riuscita. E quando Cody legge il suo librone sotto alle lenzuola, illuminato solo da una torcia, ci manca terribilmente il primo Spielberg, capace di rilevare l’invisibile nell’assenza di segnale di un televisore, nella luce che proviene da un frigorifero improvvisamente spalancato, negli oggetti e negli interstizi di uno spazio riconoscibile e quotidiano, quello che a Flanagan sembra non bastare più.