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Spencer di Pablo Larrain: recensione

Kristen Stewart e Lady Diana Spencer alla ricerca del proprio tempo, dove una brutta canzone di Mike Rutherford è più potente del peso storico di Anna Bolena. Note su "Spencer", il nuovo film di Pablo Larrain in uscita il prossimo 24 marzo 2022 nelle sale italiane grazie a 01 Distribution.

Ad eccezione di Sebastián Sepúlveda, qui ancora nel ruolo di montatore, Pablo Larrain continua a cambiare collaboratori, ma non il metodo che gli consente di apporre una firma riconoscibile.
Dovessimo individuare uno schema che consente di accostare questo film a Jackie, quello evidentemente più simile a Spencer, non sarebbe difficile rintracciare gli elementi formali che il regista cileno mette insieme per determinare la collisione tra più livelli di realtà.

La fotografia di Claire Mathon, la musica di Jonny Greenwood e la centralità soggettiva di Kristen Stewart, delineano una relazione tra spazio, commento sonoro e personaggio, il cui risultato genera un doppio movimento di presenza e assenza, molto vicino allo spaesamento di Jackie rispetto alla propria immagine riflessa, sospesa tra rappresentazione del potere e annullamento.

La colonna sonora ossessiva e spiraliforme, i toni lividi e desaturati dell’immagine e l’anatomia di una diva sono gli aspetti principali di una semantica condivisa, con uno slittamento ancora più radicale verso la fenonomenologia dell’attrice. In Spencer vengono quindi sovrapposte due mitologie, quella legata al martirio interiore di Lady Diana, con il complesso percorso identitario che ha collocato il corpo di Kristen Stewart dentro e violentemente fuori rispetto ai codici di appartenenza dell’industria cinematografica, vettore e negazione dell’icona.

La predestinazione che dovrebbe segnare il percorso di Jackie e della sua famiglia nel solco del ciclo arturiano, è un motivo ripetuto in forma ancora più esplicita in Spencer, con l’agiografia martirologica di Anna Bolena, alter ego transtorico per la principessa del Galles, e frammento di fantastoria che serve a Larrain per trasformare il set in una microsocietà governata dai morti.
Non è una dimensione nuova per il regista cileno, che da sempre rileva la persistenza della morte come collante negativo per la sopravvivenza di intere comunità.

La sceneggiatura di Steven Knight forza alcuni elementi biografici per creare la coesistenza tra familiarità ed estraneità che è centrale nel cinema di Larrain. Ambientato durante tre giorni delle festività natalizie, Spencer si concentra nello spazio ricostruito di Park House, all’interno della residenza di Sandringham Estate, luogo dell’ultimo contatto di Lady Diana con la famiglia reale, poco prima della separazione dal marito nei primi giorni del 1992. Ma Park House è anche la tenuta affittata da Frances Fermolly e John Spencer fino al 1975, luogo della prima formazione per la principessa del Galles.

Grazie allo scenografo Guy Hendrix Dyas e probabilmente alla presenza di Maren Ade nel team produttivo, gli spazi vengono ricostruiti in Germania tra Potsdam e Nordkirchen, per creare un contrasto flagrante tra la freddezza simmetrica delle stanze occupate dai reali e i resti fatiscenti del palazzo di famiglia dove Diana si aggira con la coscienza alterata, in cerca di un retaggio originario, coincidente ma opposto alla sua condizione attuale. Tutti i segni che fanno riemergere la presenza degli Spencer sono legati alla decadenza e al deperimento. Risiedono in un processo mnestico attivato come forma di resistenza rispetto alla definizione dei confini allestita dal potere. L’identità di Lady Di sembra quindi dibattersi tra due manifestazioni illusorie, quella di un rituale organizzato separato dal mondo e la conseguente fuga in un sogno di morte.

La connessione emotiva con Anna Bolena, frutto di una serie di suggestioni tra Storia e biografia, viene estremizzata da Knight per accentuare l’idea di un immaginario colonizzato e prodotto dal potere stesso. Non è solo l’affinità elettiva che consente a Diana di rintracciare un precedente per concepire una possibile via di fuga dal sistema reale e allo spettatore un aggancio cognitivo per interpretare il futuro della principessa, ma un’allusione, una reminiscenza indotta, tanto che il volume dedicato alla seconda moglie di Enrico VIII che la principessa trova ai piedi del letto, sarà minacciosamente rimesso al suo posto dall’epitome della dedizione al potere, il maggiore Gregory interpretato da Timothy Spall, presenza quasi fantasmatica come il Grady di Shining e come lui custode del potere trasmesso attraverso il tempo immutabile e immunizzante della tradizione.

La forza disgregatrice di Anna Bolena può quindi scaturire da due coscienze apparentemente in contrasto, ma sembra il risultato di un immaginario autoctono che comincia e finisce con la gestione del potere.
Ovunque Diana cerchi di fuggire, tutta l’area perimetrale che contiene il passaggio dall’infanzia all’età adulta, trasuda morte. Sono fantasmi i membri della famiglia reale, mentre si accordano sui gesti e le posture di coloro che li hanno preceduti, sono fatti di terra e polvere le radici private della principessa, è un fantasma la memoria storica che dovrebbe indirizzarne il destino.

In questa realtà claustrofobica solo il gesto dell’attrice che entra ed esce intensamente dai ruoli assegnati nel tempo, consente di opporre le possibilità della scelta. Kristen Stewart si veste e si sveste, ingloba e vomita le perle della collana durante il pasto natalizio, come opposizione feroce del corpo all’ambiguità polisemica degli oggetti che la legano alla rappresentazione del potere, al giogo del tradimento, alla definizione di un’identità femminile mai riconciliata.
La corsa, il ballo, i vestiti, diventano lotta per la conquista del proprio tempo nello spazio del rito.

Allora la distanza mortuaria che chiude i personaggi del cinema di Larrain in un limbo senza uscita, viene improvvisamente incendiata dal corpo e dallo sguardo inquieto della Stewart, che anela al possesso della visione, mentre trasforma lo spazio drammaturgico in un’arena. La lotta, furibonda, si svolge in un luogo regolato simmetricamente e improvvisamente minacciato da continue asincronie del tempo. I ritardi di Diana, le sue fughe attraverso i campi, la penetrazione nello specchio del passato, capace di mostrarle l’immagine rovesciata dell’attuale famiglia reale, le corse che bucano e allineano la curvatura del tempo, e ancora la perdita del tempo stesso, dispositivo da ingannare, prolungare o al contrario, strappare dai cardini con le continue irruzioni e le repentine uscite dal centro della scena.

Kristen Stewart e Lady Spencer alla ricerca del proprio di tempo, dove una brutta canzone di Mike Rutherford è più potente del peso storico di Anna Bolena.

Spencer di Pablo Larrain (USA 2021, 111 min)
Interpreti: Kristen Stewart, Timothy Spall, Sally Hawkins, Sean Harris, Amy Manson, Jack Farthing, Richard Sammel, Olga Hellsing, Michael Epp, Ryan Wichert
Sceneggiatura: Steven Knight
Fotografia: Claire Mathon
Montaggio: Sebastián Sepúlveda
Musica: Jonny Greenwood

https://www.youtube.com/watch?v=ztkPaY_-qyg
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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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