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The Book of Birdie di Elizabeth Schuch: la recensione

Elizabeth Schuch è al suo debutto cinematografico, ma il lavoro come assistente scenografa , prima per la televisione, poi sui set di grandi produzioni come Queen of the desert, Pacific Rim e Wonder Woman, le ha consentito di capitalizzare una notevole esperienza visuale che in qualche modo rappresenta l’aspetto più vivo del suo primo film.
Birdie (Ilirida Memedovski) è una tredicenne mollata dalla nonna in un collegio del Wisconsin gestito da suore. L’ambiente cattolico è una necessità contingente, sebbene la ragazza sia già imbevuta di quella cultura e attratta dalle reliquie, le vite dei santi e tutta l’iconografia a loro  dedicata. Purezza, santità e osservanza delle regole scandiscono le sue giornate fino a quando un inquietante risveglio cambierà la percezione dello spettatore. Immersa in una pozza di sangue, Birdie tiene in mano quello che potrebbe essere un piccolo feto abortito prematuramente. Lo conserverà sotto aceto e lo battezzerà con il nome di Ignatius, allestendo intorno a lui un altare devozionale dedicato a Santa Filomena, il cui culto oltre a favorire la fecondità di madri sterili, si è riferito nei secoli alla protezione delle giovani orfanelle. 
Gli allestimenti creativi e privati di Birdie si completano con tutti i barattoli dove la ragazza conserva meticolosamente il flusso mestruale, sangue che sparge di tanto in tanto sul suo volto, prima di recitare le preghiere.
Chiusa in un mutismo ostinato, mantiene in vita l’espressione di una sessualità confinata tra i simboli religiosi come risposta all’asetticità affettiva del convento. 
Sarà Julia (Kitty Hall) a soddisfare nuove esigenze; la ragazza che vive ai margini dell’istituto, dirotterà la formazione di Birdie verso la lettura dei fumetti e il desiderio amoroso, rivelandole le regole dell’attrazione e quelle della delusione come sentimenti connessi e inscindibili. 

Gli altri interlocutori della ragazza sono alcune suore defunte; una che incarna l’immagine di satana e che si annida nei recessi del convento, l’altra impiccatasi sull’albero che domina il giardino antistante. È proprio questa a parlarle dolcemente durante le sue apparizioni, mentre il cappio le torce il collo e la bocca in un ghigno tra grazia e orrore.

La Schuch gioca continuamente con questi ribaltamenti di senso, cercando l’epifania della grazia nella perversione e trovando quest’ultima nell’ossessiva dedizione al canone di alcune sorelle. Il confronto tra Birdie e una suora sul valore delle stimmate di Gesù è un chiaro esempio della sovrapposizione tra morte e spinta vitalistica che interessa alla regista americana. 
La purezza di Birdie risiede nell’innocenza con cui questa accoglie qualsiasi segno d’amore, non importa da dove provenga.

Nel percorso di formazione sessuale della ragazza, The Book of Birdie ha numerosi punti di contatto con quel cinema che, dagli anni settanta in poi, ha analizzato la trasformazione del corpo attraverso la coercizione della psiche. Da Carrie fino a The Butcher Boy, la Schuch trova nell’iconografia cattolica un ricco serbatoio di segni, utili per costruire una personale e visionaria antropologia del desiderio. Proprio con il film di Jordan condivide il tono e l’approccio, a partire dal riferimento all’estetica dell’illustrazione per bambini. La fiaba gotica, da Robert Mulligan a Philip Ridley, innerva qualsiasi elemento in The Book of Birdie, dal decor al gusto per i simboli che contrastano con elementi di crudo realismo. Quest’ultimo viene assorbito dall’ossessione della Schuch per i colori, gli oggetti, la composizione dell’inquadratura e una certa propensione “arthouse” tipica di quel cinema americano che guarda all’europa da una prospettiva non sempre originale e forse un po’ di maniera.
Quando non si lascia andare a derive visionarie troppo marcate, il film mantiene un interessante equilibrio tra meraviglia e orrore, senza risolvere in una direzione o nell’altra; la santità e la grazia, sembra dirci la Schuch, si trovano negli occhi di chi guarda.

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