Quando la Atlantic Releasing decide di investire sul secondo lungometraggio di John McNaughton, attratti dal ruolo di culto che “Henry – Pioggia di Sangue” stava assumendo, la squadra di lavoro che aveva esordito con il regista americano, si ricompatta intorno al nuovo progetto con un budget molto più elevato.
Oltre allo sceneggiatore Richard Fire, all’attore Tom Towles, alla montatrice Elena Maganini, sodale collaboratrice di McNaughton fino a “Condo Painting”, c’è anche Steven A. Jones, il produttore che aveva contribuito a mettere insieme queste energie, traghettando alcune figure che provenivano dall’esperienza dell’Organic Theatre Company di Stuart Gordon.
The Borrower avrà una gestazione tormentata, e lo spostamento da Chicago a Los Angeles, contribuirà ad amplificare alcune difficoltà. Una volta terminate le riprese, la Atlantic Releasing finisce in bancarotta, smantella gli uffici dalla città e cerca di coprire i buchi finanziari succhiando il budget necessario per pagare tutti coloro che avevano lavorato al film.
Un’avventura difficile che si trascinerà dal 1988 fino al 1991, anno in cui la Cannon Films e la consorella Vestron Video, acquisiranno i diritti di distribuzione per la sala e il mercato home video.
Apparentemente distante dalla fotografia sporca e desaturata di Henry, è un controcanto dai colori esasperati, dal punto di vista estetico vicino alla descrizione della città iperrealista di Jim Muro nel quasi coevo “Street Trash“, ma decisamente più documentaristico nella descrizione della suburbia marginale di Los Angeles.
Al centro una flanerie simile a quella di Henry negli angoli più oscuri di Chicago, dove il contrasto tra le necessità di sopravvivenza di un alieno e la morfologia urbana, genera una grottesca antropologia negativa, che rivela il mondo come luogo regolato dalla sopraffazione.
L’alieno spedito sulla terra dal governo di un pianeta remoto, come se dovesse recarsi in esilio in un’ostile colonia penale, ribalta alcuni stereotipi umanisti del cinema di fantascienza anni ottanta, da Spielberg a John Sayles, passando per Wolfgang Petersen, e proviene maggiormente dalle estremizzazioni del fumetto e dei b-movies.
Criminale omicida in patria, l’insetto gigante mutato in un essere umano, dovrà garantire la sua fragile sopravvivenza molecolare staccando teste e collocandole sul tronco come capita. La temporaneità del processo di adattamento, lo costringerà a ripetere l’operazione tutte le volte che il trapianto giunge al termine del suo percorso vitale. Si attiva allora un processo virale, meno pervasivo de “La Cosa” carpenteriana, più vicino al poco conosciuto “The Hidden” di Jack Sholder, uscito un anno prima, mentre il film di McNaugthon era già in lavorazione da tempo e aveva subito numerose variazioni in fase di sceneggiatura, e in anticipo rispetto a “Shocker” di Wes Craven, dove lo “zapping” di un killer da un corpo all’altro, innescherà alcuni meccanismi della commedia situazionale.
L’alieno di The Borrower si serve proprio dello “slapstick” potenziale del corpo, mentre assimila il linguaggio basilare della comunicazione gestuale e assorbe i movimenti minimi della vittima. La testa è la possibilità combinatoria di ricomposizione figurativa dell’insieme, caratteristica eminentemente cinematografica che qui condivide la prassi di cancellazione e ricostruzione della pittura o di un’opera di creta modellabile.
Troncate, smontate e ricostituite insieme ai corpi, le teste che il “mutuatario” aggiusta e prende in prestito diventano presenze pulsanti, destinate a perire da un territorio all’altro. Ecco che questa sopravvivenza deve per forza mostrarsi attraverso la deformazione espressionista della caricatura, esplorando quel confine labile tra umano e non umano, nell’emergere della smorfia e delle pulsioni più brutali. Questa dimensione letterale e niente affatto metaforica, proietta dallo sfondo un’umanità brulicante e abietta che si differenzia dalle forme aliene del post-umano per crudeltà senziente.
McNaughton sembra portare alle estreme conseguenze alcune riflessioni affrontate da Scorsese in “After Hours“, quando mette in scena la relazione spaziale e temporale che il protagonista intrattiene con la città notturna. Luogo pieno di insidie e sopraffazione, viene attraversato da un movimento senza coscienza rispetto allo sguardo atterrito di Paul Hackett di fronte alla violenza e alla solitudine.
L’alieno non può esercitare alcuna profondità morale, né attivare processi cognitivi per interpretare il mondo, lo trapassa semplicemente e si evolve in termini molecolari tracciando il perimetro di un orrore senza fine che viene scagliato dallo sfondo contro lo spettatore, come nell’espressionismo astratto e viscerale di Cy Twombly, ormai esondato tra le tracce della street art, ma soprattutto attraverso le modalità con cui quei segni sono ormai carne viva, putrescenza, degrado che riduce la presenza umana ad una comparsa.
E se tutta la crudeltà che McNaughton ci mostra è il teatro dove l’alieno si muove, questa è destinata a diventare graffito, brandello, parte di un universo pop che riesce a mettere insieme l’orrore sociale con l’astrazione pulp.
Persino la strada del buddy movie che il film sembra a un certo punto imboccare, quando il cacciatore di teste incontra l’homeless interpretato da uno straordinario Antonio Fargas, è destinata ad interrompersi brutalmente per necessità alimentari, definendo le modalità dell’alieno come quelle di un animale che deve principalmente soddisfare esigenze primarie.
La sua essenzialità gestuale, ridefinita di volta in volta dalla smorfia di dolore che ha assunto la vittima nel momento della decollazione, è una variazione fondamentalmente grafica che sovrappone più elementi del cinema americano, nel crocevia tra i corpi possibili del comico e quelli metamorfici dell’horror.
Prima che il regista di Chicago renda omaggio all’universo creativo di George Condo, ne assimila tutta la rimediazione del cubismo, in quella fusione che The Borrower esercita tra le deformazioni del cartoon e i corpi di un’America in decomposizione.
Diana Pierce, la detective interpretata da Rae Dawn Chong, incagliata tra le misteriose decapitazioni e la presenza persecutoria di uno stupratore seriale, assume progressivamente il ruolo di una testimonianza onirica rispetto alle ombre che si estendono sulla città.
Tutto sembra promanare dall’angoscia di vivere e dall’impossibilità di incidere sul reale con la propria professione. Personaggio umorale e spaesato, occupa uno spazio antitetico rispetto al folgorante cameo dell’allora diciassettenne Madchen Amick, adolescente pragmatica che incorpora la violenza come antidoto alla stessa, in anticipo rispetto al personaggio ferino, amorale e instabile interpretato da Ashley Judd nel già citato “Normal Life”.
Colui che prende in prestito le maschere dell’umanità, propaga allora il loro potenziale fino all’enigmatica conclusione, dove il motivo del massacro diventa esplosione di colore, immagine pittorica di una violenza ormai endemica, agita oppure semplicemente immaginata.
The Borrower, l’edizione Blu Ray
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La francese Video Popcorn, pubblica una splendida edizione Blu Ray, una delle prime europee disponibili sul mercato, sulla base delle versioni americane rimasterizzate insieme allo stesso McNaughton.
Presentato in un bel digipack con un booklet illustrato di oltre quaranta pagine, è un oggetto da collezione da non perdere.
La qualità dell’immagine mantiene la brillantezza e l’oscurità decadente dei colori, una delle caratteristiche più importanti del film. Buono anche il comparto audio DTS-HD sul master stereo 2.0.
Il film è proposto con i sottotitoli in lingua francese opzionabili e l’audio inglese originale.
Il booklet contiene un saggio del critico francese Jean Louis-Colaci, una lunga intervista a McNaughton e una seconda al produttore Steven A. Jones, utilissime per comprendere la lavorazione accidentata di un film di culto di cui non si trovano molte informazioni in termini storico-critici.
Gli Extra del Blu Ray includono: un’intervista al critico Arnaud Bortas sulla genesi del film, una versione alternativa dello stesso in Open Matte, per gli amanti dell’home entertainment old style, che è poi il formato con cui si è potuto vedere il film durante gli anni delle VHS, gli Storyboard originali e definitivi, utili per comprendere le differenze tra le nove versioni diverse del film, concepite in fase di scrittura, una galleria fotografica esclusiva ed infine l’immancabile trailer originale del film.
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