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The Devil’s Candy di Sean Byrne: la recensione

È in uscita nelle sale italiane il secondo film di Sean Byrne nella versione di 79 minuti destinata ai cinema, dopo la versione di 90 minuti presentata al Toronto Film Festival nel 2015

I bambini sono le caramelle del diavolo“, uno statement che potrebbe suggerirci la vera identità del potere Vaticano. Al di là di una considerazione solo apparentemente peregrina, nel secondo film dell’australiano Sean Byrne ci sono suggestioni che eccedono i confini del genere, come nel precedente The Loved Ones, tanto da sollecitare una riflessione sul male che punta dritta al cuore della famiglia e delle istituzioni che se ne sono servite come strumento politico.

Ray Smilie (Pruitt Taylor Vince) entra in contatto con la metà oscura. Sono pochi segni; la croce di cristo che si rovescia, le voci che tormentano la sua mente. Per scacciarle è costretto a connettere la sua Gibson Flying V ad un Marshall scatenando una serie di cluster infernali modellati sul drone doom dei Sunn O))). 
Ma quando dalla madre gli viene intimato di smettere, le voci tornano a premere e Ray non può far altro che spingere l’anziana donna giù per le scale. 

È l’inizio di una feroce tragedia famigliare dove oltre alle gesta del corpulento John Wayne Gacy, viene abilmente combinata una lunga tradizione horror che parte almeno dagli anni settanta, con l’utilizzo di una figura simbolica, molto meno astratta e più umanamente dolente di un Jason o di un Michael Myers, che al di là delle apparenze assume un ruolo antagonista grazie ad un procedimento nient’affatto simmetrico e binario. 

Dall’altro lato la giovane coppia Hellman; Astrid (Shiri Appleby) e il pittore Jesse (Ethan Embry), genitori dell’adolescente Zooey (Kiara Glasco). L’acquisto della casa appartenuta a Ray consentirà a Jesse di sfruttare un grande spazio antistante come studio per i suoi dipinti tra street art e arte materica, mentre la giovane Zooey sarà costretta ad adattarsi al nuovo ambiente scolastico, affrontando uno stato di isolamento doloroso. 

Le stesse voci che infestano la mente di Ray cominciano ad occupare quella di Jesse, guidando la creazione dei nuovi dipinti in uno stato di trance che lo spinge a rappresentare forme di sofferenza sempre più definite intorno alla fisiologia di un gruppo di bambini che implorano per la loro salvezza. 

A far da collante la musica metal. Mentre per Ray è l’unico antidoto contro il rumore della coscienza, per Jesse e Zooey è un gioco, adrenalina, occasione di dialogo da cui la madre è teneramente esclusa; una differenza sostanziale a cui Byrne pone una sottile attenzione che va oltre l’omaggio pedissequo ad un genere e alla sua relazione con un certo immaginario cinematografico di riferimento. 

In un contesto che sembra desunto dalla serie Amityville, la poetica degli oggetti e dell’inanimato che interessava sia a Stuart Rosenberg che a James Wan da diversi punti di vista, perde centralità insieme al ruolo della casa stessa per far posto al dissidio della coscienza. La casa interessa a Byrne come ventre materno da sovrapporre ad un antro oscuro, due spazi a un certo punto convergenti così come i personaggi interpretati da Embry e Pruitt Taylor Vince. 

La relazione di Jesse con l’arte diventa sempre più conflittuale, costretto dalle leggi di mercato, bilancia la sua creatività con le pressioni di Mara (Jamie Tisdale), la proprietaria della galleria che rappresenta i suoi dipinti. Quando sarà l’ossessione a guidare scelte artistiche e tematiche, Jesse si dimenticherà più volte della figlia dilatando il tempo della creazione a scapito di quello famigliare.

È su questo aspetto che Byrne punta maggiormente, trasformando progressivamente il film nell’agnizione umanissima del male in un contesto quotidiano. Ray diventa allora una figura che emerge nei momenti di totale obnubilamento della coscienza da parte di Jesse, una metà oscura legata alla dimensione infantile. Su questa ambiguità e sui continui rovesciamenti di prospettiva, l’autore australiano costruisce una serie di sequenze memorabili sul filo di una tensione intangibile. 

Quando Ray si presenterà nuovamente a casa sua pretendendo di snidare i nuovi ospiti, intavolerà una discussione basica con Zooey sulle proprietà della Gibson Flying V, oggetto che diventerà un simbolo dai molteplici significati; sarà Jesse ad impostare una distanza immediata e brutale con quella figura invadente, infantile, minacciosa e dolente allo stesso tempo, invertendo sostanzialmente i ruoli dei due uomini, anche agli occhi della figlia. Poco importa che l’economia del racconto punti ad uno scontro tra il male e la possibilità di resistergli, Byrne non chiarisce mai in modo così netto e manicheo le modalità di manifestazione dell’orrore, tanto da spostare improvvisamente l’asse del discorso  su alcuni personaggi marginali, come la stessa Mara e l’acquirente Leonard (Tony Amendola), figura che ricorda quella di Louis Cyphre nell’Angel Heart di Alan Parker. 

Allo stesso modo ci è sembrato geniale il modo in cui Ray individua lo spazio per compiere i suoi rituali in una dimensione coesistente e nella stessa abitazione degli Hellman. Al di là delle giustificazioni logiche e della doppia appartenenza, a Byrne interessa la coesistenza di due sentimenti opposti nello stesso spazio simbolico, quello dell’aggregazione famigliare e la sua stessa disintegrazione.

Il male può nutrirsi solamente della passione, dell’amore, delle ossessioni e sopratutto dell’innocenza. Quando Ray si prepara all’ennesimo orribile delitto, nella sua stanza un vecchio televisiore a catodo trasmette una funzione religiosa. Sono immagini sfuggenti ma sembrano provenire dalla  Santa Messa Pro Pontifice Eligendo del 18-04-2005 celebrata da Joseph Ratzinger. Il ruolo di quelle immagini è volutamente ambiguo, ma si collocano proprio nel momento in cui si parla dell’innocenza come cibo preferito del diavolo.

È una relazione con il male che solo un critico distratto, attento al significato letterale delle immagini, potrebbe assegnare all’iconografia horror-metal degli ultimi quaranta anni. Al di là degli incendi, dei paraphernalia, delle chitarre e di quell’ironia che non manca certamente nel cinema di Byrne, c’è una straordinaria intelligenza che sfrutta l’immaginario popolare come punto di contatto tra linguaggio e segno politico, celebrazione di un cinema sempre più raro e messa in abisso dei suoi stessi codici.

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Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi
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