mercoledì, Aprile 24, 2024

Viaggio a Tokyo di Ozu Yasujiro: la recensione

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Il tono finale di un film di Ozu è una sorta di rassegnata tristezza, una calma e consapevole serenità che si mantiene a dispetto dell’incertezza della vita e delle cose del mondo”.
Così Donald Richie (Yasujiro Ozu.The sintax of his film, in Film Quaterly, 17, 1963, p. 24) su quel mondo di attività umane tipiche del cinema di Ozu che sembrano rispondere a paradigmi di ordine e regolarità, ma in cui avvertiamo costantemente sottesa la scoperta dell’uomo colto nella flagranza delle sue azioni, nel complesso divenire delle sue motivazioni, nelle sue contraddizioni immedicabili.
“ Labirinto della semplicità ” è la puntuale definizione che ne dà Amir Naderi, e una storia semplice è infatti quella di Tokyo monogatari (Viaggio a Tokyo), breve epopea di una famiglia che si disgrega intorno ai due anziani genitori in viaggio per rivedere i figli, lontani per lavoro dal paese di origine, con nuove famiglie e nipoti che stanno crescendo senza nonni.

Film scandito dal rollìo dei battelli nella baia, dal passo simmetrico di bambini che vanno a scuola, ripresi di spalle lungo la banchina, dal primo piano di bottiglie di sakè o birra allineate a terra a segnare lo stacco luce/ombra, il film si apre con una panoramica sui tetti spogli della città. Seminascosto fra le case, un treno entra da sinistra, file di panni stesi ad asciugare sventolano impazziti nell’aria mossa dalla sua corsa. La solitudine metropolitana ristagna negli incipit di Ozu, riprese di corto raggio su spazi esterni tornano ben presto all’interno di spazi cubici, la mdp a fil di pavimento guarda fissa davanti a sé.

Papà e mamma, accovacciati, consultano l’orario ferroviario e preparano la borsa da viaggio. Sta per iniziare la loro piccola Odissea domestica, piccoli gesti e poche parole hanno la splendida tranquillità di chi sta per fare qualcosa che lo spinge dal profondo del cuore, prefigurando scenari di accoglienza, attese alla stazione da parte dei figli, con una parola molto grossa si direbbe una promessa di felicità.

Una vicina di casa si avvicina per salutare alla finestra che dà sulla strada, la voce del padre (Chishū Ryū) che dice: “Andiamo a trovare i nostri figli ” racconta l’amore inesprimibile che sopravvive a tutto, ma è giusto anche che risponda: “ Speriamo! ” alla donna che esclama: “ Saranno contenti di vedervi! ”.
E’ un amore assoluto, il loro, ma consapevole. La stessa vicina riappare alla finestra nella scena finale. La moglie è morta, lui è seduto di profilo nel quadrante sinistro dello schermo, muove il ventaglio che ritma il tempo, un filo di fumo si alza in voluta sottile al centro dello spazio, oltre la finestra uno scorcio della baia e un battello che parte si vedono appena.

Minima geometria compositiva per poche parole: “Mia moglie era un po’ goffa, ma se avessi saputo che sarebbe finita così avrei cercato di essere più gentile con lei. Ora che sono solo le giornate sembrano più lunghe ”.
Poi silenzio.
Fra queste due parentesi si gioca l’ultima partita con le illusioni, gli slanci d’amore frenati, l’amara vicenda di uomini che invecchiando capiscono tante cose e ormai le vivono prendendone atto.

” Ma allora, la vita è un cumulo di delusioni? ” dirà la giovane cognata a Noriko (Setsuko Hara), che sorridendo risponde solo: ” Sì “.
Amore e morte, solitudine ed egoismo che si copre di ipocrita ragionevolezza, dolcezza di sentimenti e silenzio consapevole, c’è tutto il repertorio della condizione umana nel mondo di Ozu, racchiuso nel labirinto della semplicità. Il suo ritmo è quello dei sentimenti, la musica di Saito Kojun li modula, i volti e i gesti di Chishū Ryū e Setsuko Hara, suoi interpreti di elezione, incarnano le forme di una regia che non lascia nulla al caso : “Mi ricordo che in Chichi ariki (C’era un padre, 1942) in cui interpretavo il padre, Ozu mi domandò di guardare la cima delle mie bacchette, poi la mia mano, prima di parlare ai miei figli. Fare questo seguendo quest’ordine bastava a suggerire un sentimento o una determinata atmosfera”, racconta Chishū Ryū.

Il sorriso di Setsuko Hara, l’indimenticabile Yukie di Kurosawa in Non rimpiango la mia giovinezza, la bellissima Taeko de L’Idiota, la donna che “ enigmaticamente nasconde sempre pensieri inattesi e sorprendenti  ”, illumina di gentilezza la scena mentre si muove tra le faccende di casa, massaggia le spalle della suocera affaticata, si stende vicino a lei sul futon e guarda nel vuoto mentre l’anziana signora la esorta a sposarsi di nuovo. Dalla morte del marito in guerra sono ormai trascorsi otto anni, è giusto che abbia ancora una vita felice.

Setsuko Hara è Noriko, l’unica che accolga i due vecchi con autentica gioia, che soffra al vederli partire, che accorra a Onomichi prima degli altri alla notizia della malattia della suocera. Nel corso del film Ozu costruisce la stanchezza dei due genitori, il loro silenzio remissivo, la fine della reciprocità degli affetti.
I figli hanno la loro vita, non c’è tempo per loro, non c’è neanche spazio in abitazioni anguste di periferia dove si svolgono esistenze che i genitori scoprono inaspettatamente modeste, da lontano avevano sempre pensato ai figli come professionisti affermati e invece la realtà è ben altra.

Infine i due anziani saranno spediti come pacchi ad Atami, una località termale vicino a Tokyo. Devono riposare, lì è bello, insistono figli, nuore e generi con sollecitudine non richiesta, bisogna pur occupare in qualche modo questi due ospiti che non si sa come gestire, benchè non chiedano assolutamente nulla.
Il soggiorno termale costa abbastanza ai figli e questo non fa che accrescere il disagio dei due genitori, e poi lì c’è tanto chiasso, suonano e cantano fino a tardi mentre loro, distesi sul futon, tacciono e non dormono.
Torniamo a casa”, dice il marito alla moglie il mattino dopo, seduti sconsolati in buffi kimono da stazione termale sul muretto della spiaggia, mentre tutto intorno sembra così insensato.
L’accoglienza al ritorno anticipato è gelida, fintamente cortese, queste cose si avvertono e fanno male.
“ Ora sì che siamo senza una casa! ”. Padre e madre riescono ancora a sorridere, ma è un sorriso sempre più stanco.
“ Guarda com’è grande Tokyo ”.
“ Si è vero. Se ci perdessimo non ci troveremmo più ”.
Lui annuisce, di profilo, e la guarda.

Sono soli come nessuno ora, nel controluce, di spalle. La mamma cammina e si avverte la fatica nel suo corpo appesantito dagli anni.
Il racconto procede sulla linea di un disegno strategico che spoglia la trama fino all’essenzialità, nessun elemento accessorio, solo le alte ciminiere di Tokyo che eruttano fumo nero e segnano lo stacco fra le sequenze centrali e il finale. I panni stesi ad asciugare e i bambini sullo sfondo fanno da corollario consueto.
Un coro infantile è il sonoro dell’ultima scena, ricordiamo le voci che, improvvise, entrano in campo dopo il furioso duello nell’erba in Cane randagio di Kurosawa. Ma qui non c’è il respiro epico di quel mondo e il ritorno a casa non è quello dell’eroe che vi trova dolci complicità e attese appagate.
La serata del padre al bar, prima della partenza, con i due vecchi amici ritrovati, affoga in un mare di saké e di discorsi rassegnati sui figli. Poi il cerchio si chiude e le difficoltà del ritorno, le notizie preoccupanti, il cuore della mamma che cede, un’ ulteriore seccatura per i figli, calano il sipario su questo semplice e crudele racconto di vite senza qualità.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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