venerdì, Aprile 19, 2024

Vincent must die di Stéphan Castang: recensione #Cannes2023

Presentato a Cannes nella sezione della 62/ma Semaine De La Critique, Vincent Doit Mourir è un sorprendente horror contaminato dai tempi della commedia e viceversa. Film sulla pervasività dello sguardo violento e sulla necessità di chiuderlo per ritrovare la contingenza dei corpi, come peculiarità dell'esistenza. La recensione dell'opera prima di Stéphan Castang, interpretata dai formidabili Karim Leklou e Vimala Pons

Vincent è un comune grafico impiegato in una ditta di Lione. La sua piatta esistenza tra casa e ufficio viene turbata quando comincia a subire una serie di immotivati attacchi di violenza da parte dei colleghi. Prima un laptop schiantato sull’arcata sopraccigliare, poi ferocemente pugnalato ad un braccio con una penna. Derubricate come episodi da sindrome di esaurimento emotivo, queste esplosioni di brutalità riempiono progressivamente l’atmosfera cittadina, ruotando apparentemente attorno a Vincent: chiunque entri in contatto oculare prolungato con l’uomo, viene posseduto dal desiderio di sopprimerlo, una dimensione che si rivelerà estensiva e nient’affatto binaria.

Prodotto dalla francese Capricci, la società indipendente dei fratelli Lounas che ha lavorato tra le altre cose su Pasolini di Ferrara, alcuni film di Albert Serra e più recentemente su Bruno Reidal di Vincent Le Port, l’opera prima di Stéphan Castang si avvale della sceneggiatura concitatissima di Mathieu Naert, capace di infondere nuova linfa al cinema di genere francese, muovendosi ai margini di alcune sollecitazioni che hanno attraversato l’horror d’oltralpe negli ultimi quindici anni.

Se le allusioni al cinema di Romero e a quello di Carpenter sono evidenti, a partire dagli ambienti suburbani fino alla colonna sonora composta da John Kaced, elettronica in odor d’analogico tra i Tangerine Dream di Sorcerer e la cronometria inesorabile di Fog, Castang trova la sua strada in una combinazione formidabile tra commedia e violenza urbana, sbarazzandosi di tutti gli aspetti più tipici legati all’iconografia dei morti viventi, tranne quella sospensione metafisica del senso che taglia fuori scienza, logica e raziocinio, per osservare a pupille dilatate l’espansione di un fenomeno e la riduzione della componente umana ad un’espressione puramente istintuale.

Al centro c’è una violenza montante che attraversa le relazioni, i nuclei famigliari, i rapporti professionali e quelli amorosi, rappresentata come improvvisa e insopprimibile urgenza di sopraffazione. Castang evita eccessi gore, ma si basa su quell’ipertrofia virale che dai media all’esperienza, contamina le attitudini più comuni e permea il vivere quotidiano con i codici primari dell’aggressività.

I corpi del cinema horror vengono sostituiti con una fisicità spinta al limite, appesa al confine tra sopravvivenza e abuso. Accade in ogni momento, attraverso una serie di situazioni che forzano la cornice situazionale della commedia, respingendo successivamente la risata in gola con la costruzione della tragedia dell’assurdo quotidiano, che investe la vita di un uomo comune.

Il volto dolente e il corpo sempre fuori luogo di Karim Leklou definiscono la difficoltà di vivere nel contesto metropolitano, tradotta nella fuga dal mondo. Poco importa che il propellente causale sia quello di una condizione eccezionale, perché Castang declina le paure e le ossessioni di Victor con le stesse modalità intime e soggettive con cui si potrebbe delineare un racconto morale sull’isolamento.

La violenza da cui l’uomo cerca di difendersi e dalla quale prova a nascondersi è la stessa che promana dalla rete globale, che attraversa il balletto tra potere e comunità e che infine viene sintetizzata nella sua stessa esperienza dall’acquisto di un paio di manette e di un taser, oggetti feticcio di una società securitaria che immagina di contenere la brutalità, riproducendone le condizioni.

Ma è con la relazione tra Victor e Margaux che Castang trasforma il testo di Mathieu in un’elegia disperata e non riconciliata del corpo amoroso, territorio fragile e possibile.

Quel ribollire fisico che poco prima finisce in un degradante corpo-a-corpo dentro il letame tra Victor e un ennesimo potenziale assassino, trattiene una tensione simile nella relazione con la cameriera interpretata da un’incontenibile Vimala Pons.

L’erotismo solare dell’attrice francese reagisce con le coercizioni cautelari che Victor deve inventarsi per non essere improvvisamente strangolato dalla partner. Un crinale rischiosissimo che rintraccia tutte le spinte oppositive trattenute dallo slapstick.

Divertenti e atroci, le energie erotiche che attraversano i corpi di Vincent e Margaux, tra manette e sguardi fugacemente rivolti altrove, rivelano quel confine sottile che può rovesciare il desiderio di compenetrazione nel suo opposto mortifero. Tutto il percorso della coppia fino alla fuga prima dell’apocalisse, viene trainato da una tensione indicibile che include nel gesto amore e distruzione, protezione e stupro, riconoscimento dell’alterità e improvvisa volontà di annientamento.

E nella formidabile sequenza del raccordo autostradale ingolfato, dove una comunità impazzita cerca di annientarsi, Castang sembra più vicino a L’Ingorgo di Comencini/Cortázar che a Romero, riconducendo l’estetica Zombie dalle parti di un’ipnosi collettiva tanto straordinaria quanto riconoscibile.

Questa contingenza dei corpi come peculiarità dell’esistenza, sembra allora vivibile se non si offre più credito allo sguardo, alla percezione visiva, all’organizzazione del mondo mediante le immagini. Accecarsi e bendarsi consente di riconoscersi attraverso l’evidenza del tatto, la presenza come nuda manifestazione. La superficie non può essere interpretata ulteriormente ed è proprio l’occhio a fallire, nel tentativo di andare oltre e costruire una tensione metafisica rispetto all’esperienza del contatto. Dagli schermi all’immanenza singolare, la carne diventa l’unica complicità possibile per rifondare la comunità.

Fuori dal mondo, oltre l’inferno perduto, Vincent e Margaux solcano le acque. Palpitanti e abbracciati superano la soglia dell’illusione urbana.

Vincent Must die di Stéphan Castang (Vincent doit mourir, Francia 2023 – 108 min)
Sceneggiatura: Mathieu Naert
Fotografia: Manuel Dacosse
Musica: John Kaced
Montaggio: Méloé Poilevé
Interpreti: Karim Leklou, Vimala Pons, François Chattot, Michaël Perez, Emmanuel Vérité, Guillaume Bursztyn, Benoit Lambert, Jean-Rémy Chaize, Maurin Olles, Jean-Christophe Folly

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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