mercoledì, Aprile 24, 2024

Welcome to Chechnya di David France – Berlinale 70 – Panorama Dokumente: l’intervista

Profondo fake, tragica realtà – Intervista a David France

[la foto dell’articolo – “Backstage” © Public Square Films]

Nuova fatica firmata David France, già candidato agli Oscar per il documentario How to Survive a Plague (2012) sugli anni tragici dell’Aids e la risposta di Act Up negli Stati Uniti. Dopo aver dedicato un altro lavoro alla storia dell’attivismo a stelle e strisce, indagando la morte di Marsha P. Johnson, eroina di Stonewall, France cambia tempo e luogo fissando l’attenzione sulla Cecenia, dove dal 2017 il governo dittatoriale di Kadyrov, sostenuto dal Cremlino, sta portando avanti una violenta, sistematica e ovviamente negata persecuzione delle persone LGBT+. Realizzato di nascosto, Welcome to Chechnya è un documento raggelante sugli attivisti in loco, che tentano di entrare in contatto con chiunque sia in pericolo e di trarlo in salvo passando per un rifugio moscovita. I volti delle persone coinvolte sono digitalmente camuffati. Finora, gli Stati Uniti non hanno accolto nemmeno un rifugiato ceceno. Ciascuno di noi può dare il proprio contributo aderendo alla campagna lanciata in concomitanza col film: Welcome to Chechnya, impact campaign 

Mr France, prima di tutto grazie per l’opera di attivismo. Come si è imbattuto nella problematica e come ha girato il film? Ho letto che le riprese sono durate complessivamente 18 mesi, spostandosi tra diverse nazioni.

Era mia intenzione fare un film che si occupasse dell’attivismo queer più radicale. Come i due progetti precedenti, ma al giorno d’oggi. Volevo individuare chi fa attivismo ora, dove, quali sfide ha davanti. All’inizio del 2017, come molti sono venuto a sapere dei crimini che stavano avvenendo in Cecenia, poi però non se n’è più parlato a patto di non consultare la Novaya Gazeta. In estate mi sono reso conto che la situazione era rimasta la stessa. L’assenza di una risposta internazionale aveva lasciato sola la comunità locale. Ed è quello che ha colpito il mio interesse: chi erano queste persone, cosa facevano, che rischi affrontavano? Prima di entrare nel rifugio di Mosca non avevo idea dell’impegno che ci stavano mettendo per salvare persone marchiate a morte. Come l’ho girato? È un autentico guerrilla film, non abbiamo potuto portare con noi alcuna attrezzatura professionale, per non dare nell’occhio e rischiare che qualcuno ci seguisse. Quindi abbiamo usato una normale videocamera da turista in grado di filmare in 4K, la maggiore risoluzione possibile. Abbiamo anche usato gopro e cellulari. Il suono a disposizione era solo quello registrato dai dispositivi in nostro possesso, più un microfono che applicavamo magari a una persona che stava parlando con altre a tavola, per raccogliere quanto più materiale possibile.

Da quante persone era composta la troupe?

C’eravamo io e Askold Kurov, il nostro produttore sul posto nonché documentarista molto noto in Russia. Usava lui la videocamera principale. Ne abbiamo anche lasciate alcune nel rifugio, così che chiunque potesse filmare la propria storia o quello che voleva. Parte di questo girato è visibile nel documentario.

L’uso dei video di violenze realizzati dai malfattori è molto potente e al contempo rischioso, in quanto si arriva a un passo dallo snuff movie, dall’exploitation. Uno di questi, found footage che documenta un crimine “d’onore”, si arresta un millisecondo prima che una roccia finisca sulla testa di una donna riversa, per mano di un familiare. Ciononostante, l’effetto finale è squisitamente politico. I titoli di coda ricordano quelli di The Act of Killing di Joshua Oppenheimer, pieni come sono di collaboratori “Anonymous”. Si ha l’impressione di un film che ha davvero l’intenzione di cambiare le cose, denunciandole.

Cominciamo dal concetto di exploitation: è qualcosa di cui eravamo consapevoli e che ci preoccupava. Come hai notato, i video in questione sono tagliati in modo da far capire cosa sta succedendo senza tuttavia spingersi troppo oltre. Ma in quel materiale d’archivio abbiamo anche sostituito i volti. Non volevamo propagare gli atti di violenza e umiliazione cui sono state sottoposte quelle persone. Nel primo video, i due ragazzi malmenati dal branco indossano i volti di due attivisti newyorkesi. E l’uomo stuprato indossa il mio. Abbiamo protetto queste persone per non perpetuare l’orrore. Nel film abbiamo sostituito digitalmente un totale di 22 volti.

Welcome to Chechnya è un documentario realizzato con limitazioni evidenti, ad esempio l’escamotage digitale pensato per proteggere le persone coinvolte. Questa tecnologia simile al deep fake è interessantissima dal punto di vista cinematografico, poiché per quanto chirurgica, lo spettatore si rende conto che la persona che ha davanti esibisce un volto che non è il suo. Il film offre molti momenti teneri, di affetto, che cambiano segno grazie all’uso deliberato di questo filtro robotico. Un effetto premeditato? E quanto tempo ha richiesto il camuffamento digitale?

Nella fase di ricerca e sviluppo temevo di ridurre l’umanità degli individui. Non volevo pixelizzare o cancellare le facce, abbiamo anche provato SnapChat con l’aggiunta di nasi felini e simili, poi abbiamo deciso di ricorrere a questa tecnologia, mai usata così prima d’ora. Volevo essere sicuro che le persone potessero provare empatia per i protagonisti del film. Mi sono rivolto a una neuropsicologa che si occupa dell’ipotesi Uncanny valley, un concetto della robotica che ruota attorno all’idea di provare empatia per un essere artificiale. Ha avviato uno studio per noi allo scopo di mettere alla prova questa tecnica, confrontando le reazioni del pubblico al volto di Grisha [l’identità fittizia del protagonista], a quello di Maxim [la persona autentica, rivelata nel corso del film solo quando tiene una conferenza stampa] e ad altre opzioni di controllo, scoprendo che erano identiche. Allora, se gli spettatori avrebbero reagito bene ai volti presi in prestito, era possibile condurli nel viaggio altamente emotivo che volevamo raccontare. Ci abbiamo lavorato per dieci, undici mesi, finendo appena in tempo per il Sundance. Pur avendo i risultati confortanti dello studio condotto alla Dartmouth University, eravamo incerti sull’esito finale. La risposta del pubblico ci ha sollevato.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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