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It di Andy Muschietti: la recensione in anteprima

Dai Replacements che occupano le pareti della camera di Beverly (Sophia Lillis) a Richie (Finn Wolfhard) che si rivolge sarcasticamente alla stessa, chiedendo agli amici cosa c’entri con loro “Molly Ringwald”, fino alle note di Dear God degli Xtc che commentano una stagione di disillusioni nel suo momento apicale, la versione di “It” diretta da Andy Muschietti è imbevuta di cultura anni ottanta.

Scritto da Chase Palmer, Gary Dauberman (firma abituale delle produzioni horror New Line) e Cary Fukunaga (True Detective), uscito in fase di lavorazione per i tagli al budget, si allontana decisamente dalla versione televisiva diretta da Tommy Lee Wallace nei novanta e interpretata da un indimenticabile Tim Curry.
Il più bel “coming of age” kinghiano viene ambientato da Muschietti alla fine degli anni ottanta invece che nel 1958, con una serie di trasformazioni rilevanti, ma che ne lasciano intatto lo spirito.
Le paure di un gruppo di adolescenti nel passaggio più delicato verso la conoscenza, veniva descritta nel romanzo di Stephen King attraverso un continuo avvitamento tra demoni interiori e cultura popolare. I mostri dell’immaginario Universal, segni precisi della cultura del tempo descritta con rigore filologico dallo scrittore di Portland, vengono tradotti da Muschietti su un piano diverso, oltre ai numerosi riferimenti agli stimoli pop di fine decennio, a partire dal Nightmare di Stephen Hopkins, il più vicino alla storia di King tra quelli della serie ideata da Wes Craven.
La descrizione della vita suburbana, lo scontro violentissimo con il mondo degli adulti, la possibilità di salvarsi dall’incedere della morte che abita il contesto famigliare, rispetta gli intenti originari di King con una serie di scelte molto precise e per certi versi sorprendenti, bilanciando le tentazioni “funhouse” e confrontandole costantemente con una terribile stagione di violenza.
Mike (Chosen Jacobs) e l’educazione del padre alla routine della morte nella sua attività all’interno di un macello, le attenzioni sessuali del padre di Beverly nei confronti della figlia, l’invalidità di Eddie (Jack Dylan Grazer) utilizzata come scudo dalla madre per separarlo dal mondo. In tutti i casi le relazioni famigliari rappresentano il vero orrore, nel loro passaggio dall’affetto alla tentazione del potere.
La nostalgia, strumento cognitivo utilizzato anche da King, è una via emozionale scelta da Muschietti in una forma quasi spielberghiana, quella del ricorso allo stupore infantile per attivare l’unico livello empirico ed esperienziale ancora possibile in un mondo irrimediabilmente corrotto.
Ma da questo punto di vista, non senza una punta di furbizia, la macchina del tempo rovescia la simmetria dei Duffer Bros. e del loro Stranger Things, confinando il teatrino circense nel sottosuolo, mentre il marcio emerge in pieno sole attraverso la brutalità delle dinamiche sociali, tanto da spingere il gioco nostalgico sullo sfondo, come fuga, scialuppa ma allo stesso tempo dimensione da cui emanciparsi per comprendere il senso della propria identità.

Quella che sembra una separazione didascalica tra sogno e realtà, diventa nel film di Muschietti invettiva contro le macchine del senso concepite per stordire a forza di gadget e di estetica “retrò”, la stessa che aggiorna immagini nate già vecchie con l’ausilio delle nuove tecnologie.

Si va oltre quel cinema di genere che fa finta di “resistere” sostanzialmente facendo il verso a quello dei “maestri”, come fosse un’infinita mascherata di carnevale senza più idee; una modalità che in Italia piace moltissimo, a conferma del baratro morale nel quale siamo sprofondati, proprio perché se ne vorrebbe uscire attraverso la replica dei memorabilia invece che scardinare le regole del consenso con la loro ri-lettura attiva. 

In “It”, la paura di essere un bambino, per quanto Muschietti mantenga una buona dose di romanticismo, non è quella della prima esperienza sessuale o della scoperta del perturbante, ma la dimensione dell’abuso e quell’equilibrio difficile che dovrebbe consentire, in una realtà dominata dalla violenza, di salvarsi da un’identificazione totale con il male. 

La depressione, il suicidio, la solitudine, emergono in quelle pieghe del reale che risiedono tra la documentazione degli ambienti e l’immaginazione, basta pensare alla sequenza in cui Beverly si taglia i capelli e al modo in cui la propria immagine del desiderio si trasforma in un orribile incubo punitivo. Un’esplosione che al pari della bolla di sangue che invade il bagno della ragazza, rappresenta senza compromessi quella linea di demarcazione tra paternità e possesso che tiene a distanza padri e figlie al di qua e al di là del baratro. 

Fotografato da Chung Chung-hoon, lo storico direttore della fotografia di  Park Chan Wook, in una luce vivida, nella prima ora “It” si immerge nell’osservazione di un mondo infantile già dominato dalla violenza.  E se la nostalgia è la chiave per aprire la porta più pericolosa del tempo, quella del caos e della demenza, l’unica soluzione è sbarazzarsi dei giocattoli lasciati in soffitta che ci ricordano una stagione irrecuperabile.

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