martedì, Aprile 23, 2024

Il buio si avvicina di Kathryn Bigelow

Accomunati dal buio (quello uterino della sala e quello insidioso della notte) in cui la loro esistenza si svolge, il cinema e i vampiri sono da sempre stretti da un sodalizio che pare indissolubile. Non è da meno il western, che è morto e risorto una quantità incalcolabile di volte come un’araba fenice, o tutt’al più si è camuffato sotto altre vesti per garantirsi la sopravvivenza cinematografica. Perché, dunque, non ibridare l’horror con il genere americano per eccellenza, ha pensato bene Kathryn Bigelow? Il risultato è Il buio si avvicina.

Siamo negli anni ’80, una stagione felice per l’horror, in cui la figura del vampiro – sul solco delle tre revisioni del conte transilvano viste in coda al decennio precedente ad opera di Werner Herzog (Nosferatu, il principe della notte, 1978, algido e filologico remake del capolavoro di Murnau), John Badham (lo spettacoloso e romanticheggiante Dracula, 1979) e Stan Dragoti (la stramba declinazione parodistica, Amore al primo morso, 1979), che tentavano di recuperare, con diverso approccio, la lezione della Hammer Film – si è prestata a innumerevoli sviluppi, riconfigurazioni e aggiornamenti, filtrati da una sensibilità e una scioltezza tipicamente postmoderne, che hanno comportato l’imposizione di nuovi standard stilistici e figurativi per gli anni a venire.
Uno spiccato interesse per i travagli dei teenager, e in particolar modo per i loro aneliti e curiosità sessuali, permette di accostare Il buio si avvicina ad altre due famose pellicole vampiresche: l’ironico e deliziosamente camp Ammazzavampiri (1985) di Tom Holland e lo spavaldo, concitato, ma calcolato, divertissement Ragazzi perduti (1987) di Joel Schumacher. Da notare che le formule collaudate da questi film saranno saccheggiate, anche se assai maldestramente, dalla saga di Twilight (si vedano, ad esempio tematiche come l’attrazione per il diverso e l’accostamento di due modelli antitetici di famiglia).
Alla sua prima regia autonoma, dopo il connubio con Monty Montgomery per The loveless (1984), la Bigelow scatena la sua furia visionaria e spinge al massimo il pedale dell’action; asporta con spirito iconoclasta tutti gli elementi figurativi classici del gotico vampiresco e allaga di emoglobina le sconfinate praterie dell’Oklahoma. La forte prerogativa identitaria, la fedeltà alle radici e la tradizione stanziale – temi tipici del western – delle genti della prateria americana vengono scosse dall’impeto anarcoide di un branco di vampiri erranti (i veri “indiani” del film) dal look metallaro, che girano l’America con un camper schermato, alla cerca di giugulari in cui affondare i canini. Caleb (Adrian Pasdar), aitante cowboy, legato alla propria famiglia e alla propria terra, incontra nottetempo la diafana e incantevole Mae (Jenny Wright), una ragazza tanto dolce quanto misteriosa. Giunto all’istante clou, quando l’eros elettrizza l’aria, solo e indisturbato con Mae, Caleb si accorge suo malgrado di non essere “predatore” ma preda.

Nel corso della straziante trasformazione di questi in creatura delle tenebre, la ragazza, con non poche difficoltà, riesce a farlo annettere alla banda di vampiri a cui essa appartiene, a tutti gli effetti una famiglia alternativa. Per Caleb inizierà un’odissea notturna, sarà spettatore di sconcertanti efferatezze e violenti scontri a fuoco con gli sbirri, continuamente sobillato (eccezione fatta per Mae) dalla combriccola che lo incita a sfoderare i propri, fino ad allora insospettati, istinti sadici. Una parabola iniziatica in cui la notte coincide con la sperimentazione del male e la nuova alba è per Caleb la riscoperta dei valori del suo ambiente di origine. Al di là del messaggio indiscutibilmente conservatore, nel ritratto di questa banda-famiglia di vampiri la Bigelow riesce a ricamare un ordito drammaturgico coerente e dettagliato, disseminando avvisaglie di tensioni latenti – inconciliabilità dei caratteri, divergenze di intenti, frustrazioni in agguato – fra i membri, che seguono di pari passo il crescendo narrativo fino al momento della frattura finale e insanabile. Mae, incarnazione dell’eterno femminino, è la mediatrice fra psicologie incompatibili, l’unica che vorrebbe uscire dalla chiusa autarchia del gruppo, guidato dalle ferree regole di sopravvivenza del veterano Jesse (Lance Henriksen) e della sua compagna Diamondback (Jenette Goldstein), e minato costantemente dall’irruenza ferale ed abominevole di Severen (Bill Paxton). Imprigionato per l’eternità in un acerbo corpo di adolescente, Homer (Joshua Miller) è invece la figura più tragica del film; ispirata molto probabilmente a Claudia, personaggio del celeberrimo romanzo che apre il ciclo “Cronache dei vampiri” di Anne Rice, ovvero il best seller Intervista col vampiro (1976), che qualche anno dopo sarebbe diventato un successo hollywoodiano, popolato dai superdivi più sexy del momento, per mano di Neil Jordan.
Il romanticismo struggente si alterna alla secca violenza, la quale, come indica Vieri Razzini negli extra del Dvd, viene rappresentata secondo una ritualità provocatoria che rende il film ancora oggi attualissimo. Gli spazi vibrano della luce selenica e lattiginosa di Adam Greenberg, già direttore della fotografia di James Cameron. Da quest’ultimo la Bigelow eredita anche buona parte del cast di Aliens – Scontro finale (1986). Parimenti a diversi film coevi, aleggia lo spettro dell’Aids fra ossessione per l’infezione sanguigna e sessualità come fonte di contagio, ed affiora la solitudine giovanile, col suo bisogno di comprensione, accettazione, condivisione e riscatto affettivo. Oltre alla ricca galleria fotografica, per rendere una esatta dinamica della progressione del progetto, dalla stesura del soggetto fino alla lavorazione, dalla scelta degli attori fino alle scelte estetiche, Teodora-CG ha corredato questa edizione home video di un interessante documentario di ben 48 minuti, Living in Darkness.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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