giovedì, Aprile 18, 2024

Punk Ringers: Brothers of the head di Keith Fulton e Louis Pepe

Dopo il pregevole documentario-mignatta Lost in La Mancha (2002), i sodali Fulton & Pepe aprono la sezione collaterale del Festival di Berlino con un film, a detta loro, punk. Che vorrebbe scaracciare sul pubblico, anche se gli effetti speciali a loro disposizione non gliel’hanno consentito. Amen.

Brothers of the head di Keith Fulton e Louis Pepe

UK, 2005

56a Berlinale – Panorama

C’era due volte. Una volta il falso documentario, una volta il punk. Tenuti assieme da un lembo di pelle all’altezza dell’addome, che Ken Russell – nientemeno! – filma con gotica morbosità. Ken Russell, per chi non lo sappia, è il regista di Two-Way Romeo, sfortunato biopic le cui riprese hanno subito un’interruzione prematura. Ma fermi tutti: il film non è condannato all’oblio. Un azzimato documentarista, Eddie, c’era: ha filmato molto di quel che è successo, ha recuperato alcuni rushes, ha intervistato il vecchio provocatore del cinema britannico e ha dato la parola a Brian Aldiss, autore della storia. Vero e falso si scazzottano, meta- e docu- finiscono in centrifuga.

Dopo il pregevole documentario-mignatta Lost in La Mancha (2002), i sodali Fulton & Pepe aprono la sezione collaterale del Festival di Berlino con un film, a detta loro, punk. Che vorrebbe scaracciare sul pubblico, anche se gli effetti speciali a loro disposizione non gliel’hanno consentito. Amen. La storia è quella di due gemelli siamesi e conjoined – come Chang e Eng – che nel 1975 s’improvvisano musicisti… e inventano il punk. Questa è la superficie, a base di droga chitarre fracassate e bei cadaveri. Gli ingredienti profondi sono altri, e ben più cerebrali. Head music.

Le prime immagini ci consegnano subito un cammeo di Jonathan Pryce, attore feticcio di Gilliam, utile a traghettarci dal documentario del 2003 a questo nuovo, ibrido territorio. Un waste land come quello in cui si aggira il buon Pryce, al solito distinto e allampanato. Tuttavia, nella quinta inquadratura che lo vede protagonista interviene un ciak a smorzare la finzione. Nell’ultima lo vediamo a un tavolo mentre scrive. È un avvocato. Accanto a lui una donna. In fondo, al di là della finestra, i due gemelli che giocano. Al posto della profondità di campo abbiamo uno zoom che arretra, ma il calco è chiaro: il buon vecchio Citizen Kane. Che dire, poi, della riesumazione di Ken Russell, il quale definisce il suo (finto) film abortito (come il Don Quixote di Gilliam) nei termini di innocenza ed exploitation, prendendo come esempio la sua (vera) opera rock Tommy, girata nello stesso anno in cui i gemelli acquistano fama, il 1975? Un vero sovraccarico di rimandi. Una melina, purtroppo, fine a se stessa. Come quando si dà la parola a Brian Aldiss, autore del (vero) romanzo tra cui è tratta la sceneggiatura. Ops, non è veramente lui. Lo interpreta un attore. A quel punto il gioco mostra la corda, e sono passati appena due minuti dall’inizio della proiezione. Brothers of the head è uno di quei film palafitta, nani sulle spalle di giganti: Dead ringers, Gemini, Freaks, la scuola del falso di Allen e Jackson, il punk dantan e l’exploitation degli anni ’70 e non solo. Scoperte le carte, consunte le basi, il film collassa e affonda per mancanza di un motore proprio.

La storia dei gemelli Tom e Barry Howe (intepretati dai fratelli Treadaway) è presto detta. Belli e (con)dannati a una vita abbracciata l’uno all’altro, da adolescenti inquieti scoprono la musica. O meglio, l’industria musicale li scopre nella persona di un impresario che sarebbe piaciuto a Robert Aldrich, in quanto ex bambino prodigio che usava ballare e cantare insieme alla madre sempre la stessa, melensa canzoncina. Destinata a diventare un inno di ricerca e distruzione nelle mani dei due gemelli molesti. I quali, infatti, affiancati a una band chiamata Bang Bang e a forza di urla e sudore arrivano al traguardo del primo album. Poi muoiono. Dirlo non è uno spoiler. È il non detto inevitabile di ogni storia di gemelli. Peccato che in questa storia manchi l’ossessione vera: più che il punk, pare trionfi un certo voyeurismo glam. Manca l’energia che fa tremare i muri, tenuta a bada da una ridda di velleità autoriali malcelate e dal fiato corto. Ci fa piacere rivedere Ken Russell in carne e ossa, ma sarebbe stato gradito integrarlo nel film a un livello un cicinin superiore a quello della strizzata d’occhio. E questo vale per tutto il contenuto del film, convogliato senza una concreta visione d’insieme o una reale progressione drammatica. Siamo alla citazione fine a se stessa, al garbuglio tipico di chi vuol dimostrare di aver studiato. Assistere a Ken Russell che commenta una scena onirica in cui un terzo feto emerge nottetempo sulla schiena di uno dei due gemelli è scopofilia pura, un omaggio a Cronenberg che è tutta salute. Ma: è buttata lì. Ma: ce l’aspettavamo quasi.

Il film di Fulton e Pepe non è né punk, né spiazzante nel suo giocare col falso. Forse avrebbero dovuto chiamarlo F for fuck e abbassare un pedale nero come la pece, senza badare alle finezze. Forse avrebbero dovuto fare un film di montaggio puro sul tema dei gemelli. Così com’è, non va. La musica dei Bang Bang – tutta originale, farina del sacco di Clive Langer – è giusto plausibile. La regia vorrebbe essere sporca, in realtà lecca anche troppo quel che vede. Lo sfrutta, alla fin fine. Eppure, Brothers of the head non ha il fascino scomposto e offensivo di un vero film di exploitation. Filma un processo di distruzione, ma dov’è l’accanimento? Quando il crollo avviene, lo spettatore si salva e non coglie l’onda d’urto. Perché non è un crollo disperato. Perché nel corso della visione abbiamo assistito a troppi giochi, a troppo disincanto: l’emozione è sospesa e il finale, che la richiederebbe, spara a salve.

Una curiosità: in maggio Terry Gilliam, amicone della premiata ditta Fulton & Pepe, realizzerà un’installazione a Potsdamerplatz, attuale cuore della Berlinale. Ha in mente di piazzarci dei corpi senza testa, nelle cui gole si potranno vedere immagini storiche della città. Brothers without heads

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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