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Ich war zu Hause, aber… (I Was at Home, but…) di Angela Schanelec – Berlinale 69 – Concorso: recensione

Schanelec, uno dei nomi storici della cosiddetta Berliner Schule realizza un film privo di guizzi

Campagna, un cane rincorre una lepre. Cut to: cascina vuota. Il cane mangia la lepre. Entra un asino. Sta lì. Ci guarda. Balthazar? Cut to: Berlino in inverno. Un ragazzino scappato di casa torna a casa. La madre (Eggert), divorziata, con anche una figlia piccola, è sull’orlo di una crisi di nervi. Anche volendo scendere in maggiori dettagli, la sinossi finisce qui.

Schanelec è uno dei nomi storici della cosiddetta Berliner Schule, insieme a Petzold, Arslan, Hochhäusler. Un’ondata mite di film freschi, pensati e realizzati per sottrazione, che ha accompagnato la ripresa del cinema tedesco quasi vent’anni fa. Nessun dogma per carità, nessun manifesto, solo una voglia di sobrietà, di vicinanza alla vita quotidiana (spesso urbana) che per un periodo ha fatto sensazione. In questa graffa di nomi, Schanelec si è imposta come la regista “del mattino presto”, ruolo che svolge alla perfezione nel primo segmento del film collettaneo “Deutschland 09” (2009). Il successivo “Orly” (2010), chiuso nell’eponimo aeroporto, è forse il suo film più accessibile, a metà strada tra osservazione antropologica e guizzo di trama.

In Ich war zu Hause, aber… i guizzi scarseggiano, al contrario delle strizzate d’occhio. Il titolo fa l’occhiolino a Ozu (“Sono nato ma…”), il resto è un disperato tentativo di confezionare momenti bressoniani o straubiani. Metti una classe di bambini che recita l’Amleto in preda a rigor mortis.

A forza di ragionare per ellissi e sottrazioni, il film risulta vuoto (di senso, di nessi), esangue e al contempo irritante nella sua leziosità. Passano le sequenze e l’unico filo rosso manifesto sembra essere la volontà di compilare un campionario delle trovate da cinema d’autore per pochi eletti. Bellocchio parla ogni tanto della sua unica carrellata verso il nulla, un movimento di macchina del tutto gratuito inserito in “Salto nel vuoto” (1980). Qui non manca il piano sequenza di dieci minuti a passeggio con la bici, ma il vero dramma del film sono i dialoghi – con ambizioni umoristiche – che proiettano le divagazioni anche sull’asse audio. Unica eccezione, gratuita come tutto il resto ma almeno un bel sentire, la cover di Let’s Dance a opera di M. Ward.

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