Home festivalcinema Le grand cahier di János Szász al Trieste Film Festival 2014

Le grand cahier di János Szász al Trieste Film Festival 2014

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Le grand cahier è una storia di formazione in un mondo totalmente deformato, una favola nera ambientata sul finire della seconda guerra mondiale. Frutto di sinergie importanti, riconosciamo nella fotografia il tocco di Christian Berger, già direttore ne Il nastro bianco di Haneke, la colonna sonora è dell’islandese Jóhann Johansen (già con Denis Villeneuve per Prisoners), e infine, a completare, facce di attori di cari a Tarr Béla come János Derzsi e Miklós Székely.

Anche se ambientato in tempo di guerra, questa resta sullo sfondo. Solo a tratti torna in primo piano con qualche divisa nazista o camion di Alleati sventolanti bandiera rossa, un soldato disertore che muore per congelamento e bombe che piovono improvvise dal cielo o mine che esplodono da terra a sciogliere nodi inestricabili.
Non c’è bisogno di vederla, infatti, la guerra. E’ stata ampiamente interiorizzata nel mondo di Egyik e Masik Iker (László e András Gyémánt), gemelli tredicenni affidati dalla madre a Nagyanya (Piroska Molnár) la nonna che vive in campagna, una brutale, enorme vecchia alcolizzata e crudele, che dicono abbia avvelenato il marito e che tutti chiamano “la strega”. La madre voleva salvarli così dalla guerra, tornerà troppo tardi a riprenderli. Proprio la guerra, infatti, separandoli dai genitori e allontanando la moglie dal marito, ha devastato quel nucleo famigliare felice col fragore di una granata che arriva a scavare un cratere enorme.

Dopo nulla può tornare ad essere come prima. Costretti ad imparare le regole di un mondo dominato dalla violenza, i due fratelli, se vogliono sopravvivere, devono diventare insensibili e spietati, crearsi intorno una barriera che li ripari dal dolore, diventare portatori di dolore essi stessi.

La storia, dice János Szász, il regista, “è quella di bambini innocenti e al tempo stesso crudeli, due precoci adolescenti che si trasformano in assassini. Nonostante abbiano due corpi distinti, Egyik e Masik hanno solo un’anima e una volontà, parlano allo stesso modo, concludono l’ uno le frasi dell’altro e sono sempre sulla stessa lunghezza d’onda. Quando uno dei due pensa a qualcosa, l’altro la mette in pratica e per loro uccidere non è altro che un atto di giustizia”.

Un racconto morale, dunque, se non appartenesse ad un mondo che ha smarrito i confini della morale. Meglio allora definirlo un racconto dell’orrore, dove l’orrore risiede nell’angoscioso contrasto fra il male e la cornice inconsueta in cui si annida, due adolescenti inermi con un’idea stravolta di giustizia che, in un processo osmotico necessario alla loro sopravvivenza, assorbono dall’ambiente circostante modi e tecniche della violenza. Fortificazione del corpo e dello spirito, prove di resistenza, pratica della morte esercitata su piccoli animali e, infine, con l’uomo. Tutto questo nei loro anni di crescita, stretti in una simbiosi tale che per loro l’unico male sarebbe essere separati. Eppure, dovranno superare anche questa prova, e lo faranno, dopo aver acquisito un cinismo così paradossalmente innocente e disperato da lasciare interdetti.
E’ l’apocalisse dietro l’angolo quella a cui assistiamo, l’incubazione del male, la genesi di mostri studiati in vitro nel loro farsi, crescere e moltiplicarsi, il brodo di coltura dell’orrore di un secolo tradotto in metafora. I due bambini hanno l’età giusta per essere plasmati come molle plastilina e diventare pedine consenzienti e fanatiche di qualunque potere miri all’omologazione di massa per esercitarsi. Sovrasta ogni altra reazione l’angoscia che coglie di fronte allo spettacolo della bête humaine capace di rintanarsi anche in giovanissime vite che si riterrebbe immuni dalla seduzione della violenza e dall’esperienza del dolore. Un mondo senza speranza, dunque, in cui il male è l’innocenza negata che diventa furia distruttrice, Erinni che sale dal sangue delle vittime e si abbatte sull’uomo, traducendo in immagini la denuncia agghiacciante contenuta nel libro della Kristoff.
La sua scrittura fredda e tagliente prende corpo nel film in sonorità cupe e immagini raggelate, nei cambi fulminei di scena che spezzano e riannodano ogni volta il filo della storia in un martellante senso di minaccia incombente. La quieta disperazione con cui Kristoff ha guardato alle tragedie del suo Paese, rivivendole nell’allegoria potente del romanzo, diventa nel film lo sguardo severo e dolente di János Szász sulla cancrena che divora il tessuto sociale, imbarbarendo i popoli in tutte le loro fibre (quelli dell’Europa dell’Est, ma si pensa anche ai bambini-soldato dell’Africa post coloniale o agli “scugnizzi” che ogni guerra lascia soli per strada in branchi sbandati).
Quel diario sugli eventi di guerra di cui Egyik e Masik sono testimoni, le grand cahier che il padre aveva affidato ai due ragazzi prima di lasciarli per il fronte con la raccomandazione di scrivere tutta la loro storia, si riempirà nel tempo di un testo di freddezza terrificante, ogni parola è priva di emozione e testimonia le tappe di un tremendo avanzamento nella vita, quello compiuto alla conquista del male dove il bene non può esistere.