Home festivalcinema Marriage Story di Noah Baumbach – Venezia 76, Concorso: la recensione

Marriage Story di Noah Baumbach – Venezia 76, Concorso: la recensione

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La qualità della scrittura di Noah Baumbach non è riscontrabile solo nella durata, nell’ampiezza o nella elaborazione delle acrobazie linguistiche che stressano la narrazione, bensì anche e soprattutto nel momento in cui tutto il linguaggio, composto da confronti dialettici e impennate monologiche, si chiude in un origami per diventare altro.

Questo momento di torsione significante verso l’altro costituisce il momento conclusivo, la somma sinottica, del percorso descrittivo che caratterizza il film, ma è comprensibile solo mediante il lento e stratificato attraversamento del programma narrativo che lo precede, attraverso cui il regista conduce i suoi personaggi prima del punto di svolta.

All’inizio della storia i due dialoganti (marito e moglie durante un divorzio, interpretati da Adam Driver e Scarlett Johansson) sono posizionati agli estremi poli della convivenza reciproca: l’opinione (o l’incapacità di comunicarla) di ciascuno sull’altro connota una lontananza emotiva siderale, alimentata dall’assenza di sincerità e dal montare di risentimento.

Il film però non gioca solo sulla comunicazione “parlata” e organizza la composizione scenica del piano per esplicare a livello visivo l’inconscio (il futuro) di quanto detto (si dirà) in scena; mentre le parole istruiscono sulla distanza che i millimetri di rabbia hanno aumentato negli anni, l’organizzazione plastica dei loro corpi suggerisce infatti quanto la coppia sia in realtà attratta dalla comprensione reciproca.

Il loro allontanamento (espresso in progressione mediante l’intensificazione del linguaggio) chiama un ricongiungimento, perché quest’ultimo è inscritto nella dinamica strutturale del primo.

Marriage Story, il film stesso, è quindi l’insieme delle scelte che il regista compie per riavvicinare i suoi personaggi e per invertire la tendenza della loro convinzione: la grammatica cinematografica concreta visivamente la congiunzione costringendo i due alla stessa inquadratura, sigillandoli in una cicatrice a forma di campo-controcampo, in una frontalità a dissolvenza incrociata a cui non si può sfuggire e che fa male e allo stesso tempo calca sulle andature comuni dei due profili sovrapposti.

Quando il film li porta a un millimetro di distanza, il lessico famigliare si spacca in fulmine e i due si toccano con lo slancio di anni di virtuale lontananza.

Appena in seguito, dopo aver portato gli estremi all’estremo dell’unione e costretto i personaggi a confrontarsi, Baumbach segna un punto di non ritorno e svolta, torcendo appunto la narrazione. Lo fa modificando la forma comunicativa dominante del suo racconto: il film non parla più, cessa di essere un concerto dentro all’orecchio, invece si ferma e ascolta, diventa una camera anecoica dove si sentono tutte le sfumature del suono.

Un figlio ricorda il passato e trova nel ciclone il punto di fuga, il linguaggio si consegna al silenzio che parla e riannoda gli strappi, le stringhe slacciate. Così il film consegna una verità, abbraccia la commozione, si spalanca e travolge.

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