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Nuoc 2030 di Nguyen-Vo Nghiem-Minh: Berlinale 64 – Panorama Special

Mùa len trâu, noto con il titolo internazionale di Buffalo Boy, è il primo lungometraggio di Nguyen-Vo Nghiem-Minh; prodotto nel 2004 ha imposto il regista Vietnamita all’attenzione di alcuni festival fino alla candidatura come film straniero per gli Oscar di due anni dopo. Nuoc 2030 è il secondo film per l’autore di Saigon; sviluppato a partire da un suo stesso racconto si ambienta in un Vietnam di venti anni avanti nel tempo, ormai quasi completamente sommerso dalle acque a causa delle conseguenze dovute al veloce aggravarsi del surriscaldamento globale; premesse che consentono a Nguyen-Vo Nghiem-Minh di lavorare sull’elemento acquatico come fosse un’immagine condivisa tra astrazione e realismo, tanto che se dovessimo per forza chiamare in causa la science fiction, questa potrebbe essere descritta esclusivamente a partire dalle caratteristiche tipiche di un racconto di “ambientazione” che si serve di elementi allusivi invece di ricorrere ad un decor esplicito e fortemente connotato.
Il “deserto” acquatico è quello che interessa al regista Vietnamita, come immagine storica del suo paese e con alcuni innesti tecnologizzati osservati a distanza, attraverso pochissimi elementi di una città lontana come fosse un ologramma che emerge dal niente, oppure con gli occhi di alcuni monitor di controllo che si scorgono dentro il caos del mercato, giusto per fare un esempio.

Un utilizzo quindi ellittico e “trasparente” che sembra interessante proprio per il lavoro che Nguyen-Vo Nghiem-Minh vorrebbe fare sulla superficie dell’immagine e sulle increspature dell’acqua, fin da quando il cadavere di Thi fluttua sott’acqua nei primi minuti del film. Dal momento in cui la moglie Sao lo trova, lo riscatta dall’obitorio e lo seppellisce in mare con una bara di metallo approntata perchè non sia divorato dai pesci, il film oscilla tra la relazione di corpi e oggetti del passato con la forza distruttiva dell’acqua e alcuni simbolismi di troppo che sembrano letteralmente sovrapposti come forti indicazioni di senso.

Non ci ha affatto disturbato il lento trasformarsi di tutte le istanze – politiche, di genere, narrative – in una love story che sembra inabissarsi più di una volta; al contrario ci è sembrato che questa non rischiasse quasi mai di raggiungere il “fondo”, rimanendo ancorata ad una confezione sin troppo festivaliera, che richiama molte volte il Kim Ki duk de l’isola, senza quella stessa forza disperata, oppure il Pen-Ek Ratanaruang di last life on the universe, dal quale prende più di un’intuizione, incluso l’utilizzo del digitale che contamina l’immagine della natura, qui in un modo evidente e allo stesso tempo “primitivo”.

Nuoc è un film di una semplicità a tratti disarmante, anche per il modo in cui si avvicina agli epifenomeni, un’occasione persa se si pensa che tra tutte le possibili asimmetrie che il set naturale gli avrebbe potuto offrire proficuamente, Nguyen-Vo Nghiem-Minh sceglie la compostezza del quadro ambientale, filma oggetti e corpi dall’alto, osserva le cose da una prospettiva aerea, gli sovrappone un digitale giocattolo, e in fondo cerca la forza dell’acqua standoci completamente fuori.

 

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