venerdì, Aprile 19, 2024

Utøya 22. Juli di Erik Poppe – Berlinale 68, concorso: la recensione

Il 22 luglio 2011 un neonazista – che non merita di essere citato per nome – sferrò un doppio attacco terroristico a Oslo, travestito da poliziotto. Nel primo pomeriggio fece esplodere una bomba in pieno centro, per poi spostarsi verso le 17 sull’isola di Utøya, dov’era in corso il campo estivo dei giovani laburisti. 77 le vittime totali del massacro, 69 delle quali sull’isola. 99 i ferimenti gravi. 72 i minuti durante i quali il terrorista agì indisturbato tra le acque e i boschi del Tyrifjorden.

Il regista Erik Poppe sceglie di raccontare questi 72 minuti in piano sequenza, dopo un avvio che descrive per sommi capi il primo attacco usando perlopiù materiale di repertorio. Una volta sull’isola, l’obiettivo segue Kaja (Andrea Berntzen), che entra in scena guardandoci in faccia per dire che non capiremo. In realtà sta parlando al telefono. Nota bene: il film, dotato di soggetto e sceneggiatura, non vuole essere un fedele re-enactment, ma millanta credibilità in base alle dichiarazioni dei sopravvissuti. Le riprese sono state effettuate in un’isola accanto a Utøya.

Parrebbe proprio che ci si ritrovi dalle parti di “Victoria”, solo che stavolta l’argomento è lontano anni luce dalla rapina balorda ordita da cinque giovinastri a Berlino. Basta lo scarto tematico a dare dignità a questo ennesimo esperimento di piano-film, tour de force buttato sulle spalle del direttore della fotografia Martin Otterbeck e del gruppo di giovanissimi attori? Basta una nobilitazione di tipo tecnico per giustificare la morte in diretta e una sequela di eventi presunti che nulla aggiungono alla storia del massacro?

La pellicola non cerca né fornisce risposte, per esempio, al ritardo delle forze dell’ordine. Si concentra unicamente su questi settantadue minuti eterni, e para le obiezioni più ovvie buttando l’obiettivo nel mucchio delle vittime. L’uomo col fucile non si vede quasi mai, e quando appare è una sagoma nera lontana, robotica. I colpi, quelli, si sentono tutti e sono l’unica colonna sonora del film, eccezion fatta per “True Colors” intonata da Kaja all’amico Magnus mentre si nascondono tra le rocce e il fango.

Altro che tour de force, altro che rispetto nei confronti dei morti. Poppe imbastisce un film sbagliato nel momento stesso in cui opta per la finzione, e mediante questa full immersion da videogioco sforna un azzardo inaccettabile, un’operazione vampirica, ricattatoria, sadica fino al midollo. Oltretutto, inutile.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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