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Hiroshima mon amour di Alain Resnais di nuovo in sala: la recensione

Due corpi nudi, uniti in un abbraccio. La mano di lei accarezza la schiena di lui. Un momento di intimità interrotto dalle voci over e da immagini che evocano il disastro atomico. Inizia così Hiroshima mon amour, film del 1959 di Alain Resnais restaurato dalla Cineteca di Bologna e riproposto a partire dal 28 aprile prossimo nelle sale italiane.

Lei (Emmanuele Riva) è un’attrice francese che sta girando un film sulla pace a Hiroshima. Lui (Eiji Okada) è un architetto giapponese. L’incontro casuale si trasforma in una grande ed effimera storia d’amore. Appena 24 ore e lei tornerà in Francia. 24 intense ore nelle quali la passione innesca il ricordo di un altro amore, lontano nel tempo, sepolto in un oblio che riaffiora inevitabilmente: l’amore impossibile di lei con un soldato tedesco durante la seconda guerra mondiale, nel paese natio di Nevers, l’amore che la condurrà alla follia e alla solitudine.

Film sulla memoria e sull’impossibilità di dimenticare, Hiroshima mon amour è il primo lungometraggio di Resnais, dopo un’attività quasi decennale da documentarista. E proprio i grandi nuclei tematici affrontati nei documentari (la centralità del tempo, il rapporto tra memoria e presente) vengono riproposti nel film, arricchiti da una costante ricerca di un nuovo sperimentalismo linguistico e formale che renderà il cinema di Resnais un’esperienza unica nel panorama del cinema francese, segnato in quegli anni dalla volontà di trovare nuove strade al linguaggio cinematografico. Così come Resnais non va confuso con i critici/autori che si formano all’interno della rivista “Cahiers du Cínema” (Truffaut, Godard, Chabrol, Rivette e Rohmer), abbastanza definite sono anche le divergenze con gli altri autori della “rive gauche”, corrente a cui Resnais viene assimilato. Evidenti, invece, i punti di contatto con la filosofia di André Breton, secondo cui l’immaginazione (e quindi la vita interiore) non aveva limiti e doveva giungere ad una sintesi con la percezione della realtà oggettiva. Gran parte della sua ricerca espressiva (almeno quella dei primi lavori) è infatti costruita sul tentativo di superare il limite della narrazione e della consequenzialità spazio temporale. Il cinema di Resnais non ha forma, trasporta nel rullo della pellicola l’incedere della vita interiore, il movimento del pensiero, la coscienza. In questa nuova dimensione, che apre le porte al dubbio, la memoria e il ricordo si impossessano di un nuovo significato, non sono solo la prova tangibile del vissuto di ognuno di noi, la certificazione dell’esistenza, ma l’esperienza interiore che diviene territorio dell’immaginario. Nulla è psicologicamente determinato, i personaggi sono quello che ricordano, frammenti di un senso mai compiuto definitivamente che cerca una nuova verità.

Questa idea di cinema (e di filosofia) è ben presente in Hiroshima mon amour. La memoria recupera il passato e si staglia nel tempo di un ricordo sospeso tra storia individuale e storia collettiva, impossibile da cancellare. Muta, di fatto, anche la prospettiva di un presente che diventa tempo dell’eterno ritorno e sgretola ogni linearità. Passato e presente si fondono fino a diventare un’unica cosa. Non esiste stacco. Non esiste confine. È un’interazione reciproca che serve da stimolo ad una riflessione che parte dall’esperienza individuale per arrivare alle grandi questioni della storia. Ma, mostrando questo falso movimento della coscienza, Resnais non vuole trovare una risposta. Tutt’altro. La frammentazione del tempo è anche la frammentazione della Storia, quella frammentazione resa ancora più marcata dalle immagini del passato che si sovrappongono a quelle del presente e finiscono per innescare un gioco di specchi e rimandi nel quale anche lo spettatore è chiamato a recitare un ruolo attivo.

Hiroshima mon amour mischia diversi piani, passando con disinvoltura da un fulcro tematico all’altro. Se la memoria è il filo conduttore che lega le esperienze dei personaggi, la storia d’amore a Hiroshima, breve e indimenticabile, serve da pretesto per riaprire la ferita sedimentata nel passato ma pronta a tornare nel presente attraverso il ricordo. Ecco che si manifesta la necessità dell’oblio, una necessità però impossibile da realizzare. Se non si dimentica non si può vivere, sembra dire Resnais. E se la tragedia storica della bomba atomica segna in modo indelebile la memoria collettiva, nella vicenda personale dei due protagonisti si innesta quel vortice d’impotenza che costringe il presente a sottostare alle dinamiche del ricordo.

Lo sviluppo di questa linea tematica è ben rappresentato nella struttura e nel linguaggio del film. Se la prima parte fonde finzione e documentario, sovrappone la storia d’amore tra l’attrice e l’architetto con le immagini del disastro atomico, nella seconda parte la dimensione personale prende il sopravvento e Hiroshima diventa un simulacro, il luogo di un passato che non può più andarsene. Ecco che diventa protagonista la storia d’amore con il soldato tedesco, Hiroshima si trasforma in Nevers e passato e presente diventano tutt’uno (Resnais abolisce qualsiasi raccordo, saltando con disinvoltura, senza soluzione di continuità, da Nevers a Hiroshima). Alla fine, solo dopo aver certificato l’impossibilità dell’oblio e aver elaborato il ricordo attraverso la coscienza, la donna può ricominciare a vivere con una nuova consapevolezza, nata dal confronto traumatico con il passato e dal recupero di un rapporto edificante con la propria soggettività.

Hiroshima mon amour è quindi un film complesso, affascinante, una profonda riflessione che coinvolge il tempo, la memoria e i suoi significati. Un film importante, uno spartiacque, un punto di riferimento per la nuova generazione di registi che scardina la struttura tradizionale del racconto cinematografico e apre le porte alla rivoluzione espressiva degli anni ’60. Hiroshima mon amour è del 1959, come A bout de souffle di Godard e Le 400 coups di Truffaut. Tre film diversi realizzati da autori che, al di là delle apparenze, non hanno molto in comune, se non un certo retroterra culturale. Tre film destinati nello stesso modo a cambiare la storia del cinema, destinati a tracciare una nuova via nel modo di pensare e di realizzare cinema.

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Michele Nardini è laureato in Cinema, Teatro e produzione multimediale all’Università di Pisa e ha alle spalle un Master in Comunicazione pubblica e politica. Giornalista pubblicista, sta maturando esperienze in uffici stampa e in redazioni di quotidiani, ma la sua grande passione rimane il cinema
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