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Anuncian Sismos di Rocio Caliri e Melina Marcow – Torino Film Festival 32, concorso: la recensione

Anuncian Sismos: si annunciano terremoti, sì, ma nelle platee del Torino Film Festival, per questo film davvero brutto, sconclusionato, dalla regia amatoriale (non come stile, ma proprio impacciata e inesperta) e dalla trama sfuggente, forse mai ben definita nemmeno in fase di scrittura.

Se si fosse presentato come sperimentazione di puro nonsense sarebbe riuscito forse a guadagnarsi un minimo di attenzione. Ma il problema è che dietro queste immagini sgradevoli e questa struttura narrativa incerta si nasconderebbe anche un assunto che a tratti affiora e sembra donare senso al marasma visivo, ma è solo un’illusione ottimistica, e il film precipita nuovamente nell’oblio scriteriato.

Siamo nell’Argentina del Nord, in una cittadina colpita da una serie di suicidi a catena tutti occorsi tra le giovani generazioni. Il film si sofferma sulla famiglia di Mariano, con la sorella suicida e la madre che cerca di sopravvivere al colpo insieme al fratello più piccolo. La donna, colpita da irrefrenabili attacchi di pianto, dissimula sbucciando cipolle, mentre Mariano entra in un programma di recupero legato alla costituzione di un combo rock dove tutti i membri del gruppo hanno un parente morto suicida.

Per raccontare questa storia di isolamento, le due registe utilizzano in modo decisamente “sbagliato” e gratuito di tutti i supporti mediali alternativi alla camera. La delegazione dello sguardo al telefonino o alla videocamera non trova infatti senso in uno sviluppo narrativo che si muove tra goffa critica all’istituzione ed elaborazione del lutto attraverso un programma di sostegno a ragazzi che, a dirla tutta, sembrano non averne poi così bisogno. I punti di vista si incrociano e aggrovigliano, l’iniziale coralità è sostituita da una focalizzazione nello sguardo unico di  Mariano, che non si sa perché, forse con funzione metaforica, ci appare spesso intento ad osservare un cimitero con un binocolo. L’immagine in soggettiva è fuori fuoco, e potrebbe avere anche un senso se non fosse per tutte le inquadrature e i piani del film, sporcati da sfocature maldestre, davvero ad un grado zero della realizzazione. La famiglia rappresentata è poi è tutto un programma: una sorella suicida, un fratello teledipendente e un po’ folle e una madre depressa che cerca di compensare il vuoto della perdita con l’acquisto di centinaia di barattoli di pomodoro, impilati in una piramide come se fosse un quadro pop e che il figlio sistematicamente distrugge, come un paladino sovversivo al predominio artistico dominante. La musica della serie televisiva americana A-Team che ricorre più volte, ossessivamente, nel film, anche nei titoli di coda, si riallaccia d’altronde a questa allusione alla cultura popolare. Ma come si incastri nel complesso del film continua a sfuggirci.

L’accenno ai desaparecidos argentini risveglia ancora nello spettatore un barlume di speranza, ma finisce col non trovare continuità né coerente inquadramento nel contesto della trama che intanto si sfalda sempre più, al limite del grottesco. Un film che suscita tanti quesiti nello spettatore, sì, ma nessuno in positivo. E fra tutte, si fa strada la domanda fondamentale; “ma come ci è finito al Torino Film Festival un film del genere?” .

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