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Franny di Andrew Renzi: la recensione

C’è una certa dose di mistero in Franny, una forma filmica che scava, nel non detto, nel fuori fuoco delle emozioni e delle immagini, la segretezza della rappresentazione. L’esordio alla regia di Andrew Renzi, in uscita il 23 dicembre e distribuito da Lucky Red in 150 copie, è un caleidoscopio di sfumature che intende restituire  le complessità dell’animo umano, riuscendoci però solo in parte.

In un gioco di climax narrativi, ben ancorati alla classicità della struttura, la figura eccentrica, filantropica e dipendente da morfina del miliardario Franny (Richard Gere) rimane il centro nevralgico della narrazione e attorno al quale si muovono le varie personalità che animano il film, ora amorevoli e sobrie come Olivia (Dakota Fanning) ora divise e bloccate come Luke (Theo James), in un triangolo che sembra riflettere le diverse forme del cambiamento.

Il personaggio di Richard Gere vive nella dicotomia esistenziale di chi ha tutto ma in realtà non ha niente, nella nevrosi barocca dei suoi gesti che nascondono un malessere interiore, nella teatralità delle movenze che collimano con il realismo asciutto della finzione, nel voler dimenticare il presente rimanendo legato al passato.

Se Gere in questo ruolo riesce a dare forza e profondità all’interpretazione, il suo personaggio cade spesso nella discontinuità superficiale di una sceneggiatura che cerca di allontanarsi dai cliché per sprofondarci dentro, non riuscendo a tratteggiare sino in fondo le tante anomalie dell’esistenza.

Ispirato a una perdita realmente vissuta dal regista, il film ad ogni modo conserva una sua anima elegante e molteplice, muovendosi, tra sensi di colpa e dipendenze, su inquadrature impressioniste e su una fotografia, opera di Joe Anderson, che gioca con raffinatezza sui chiaro scuri tonali come riverbero dell’emotività e sullo sfondo di una Philadelphia familiare.

Franny in sostanza è un film con spunti narrativi interessanti ma esili, un prodotto che perlustra a fondo le false opportunità della vita, ma lasciando i suoi enigmi più profondi troppo sospesi. In questo viaggio oscuro e senza quiete tra i fantasmi dell’animo umano, in cerca di redenzione, non si penetra nel dolore in maniera incisiva e trasversale, correndo il rischio che la complessità e la forza dei demoni del protagonista non emergano mai del tutto.

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