Home alcinema Natale con il boss di Volfango de Biasi: la recensione

Natale con il boss di Volfango de Biasi: la recensione

Chissà se la Filmauro di Aurelio De Laurentiis, nel tentativo di “rinnovare” la formula dei cinepanettoni, mentre provava a smarcarsi da alcune formule consunte non abbia cercato di onorare il rispetto della tradizione con un titolo come “Natale con il boss”, completamente alieno rispetto al film in oggetto. È una sensazione alimentata proprio dai titoli di testa, certamente nel solco di quella sciatteria all’italiana, realizzati con i preset animati di Imovie e appiccicati sopra la sequenza introduttiva in modo del tutto casuale, probabilmente di corsa e all’ultimo momento.

A differenza del precedente Un natale stupefacente, diretto sempre da de Biasi, la vicinanza anche disfunzionale alla festa è qui ridotta al minimo, nel tentativo di realizzare un film meno cameristico e televisivo, allargando la prospettiva degli scambi e della girandola di equivoci ad un doppio buddy movie (Lillo & Greg più Mandelli & Ruffini) che cerca di superare il formato episodico, di fatto camuffandolo in una struttura lievemente più articolata.

A guadagnarci dovrebbe essere la dimensione più anarchica e improvvisativa e la volontà di rifarsi alla storia internazionale del cinema comico, pur mantenendo al centro la dinamica dello “scambio nelle culle” ormai abusatissima fin dai meravigliosi colpi di teatro di Totò e Peppino.

E il tentativo di riferirsi in modo smaccato al cinema degli anni settanta con Mandelli che esaspera il poliziotto incazzato è un giochino divertente ma rimane confinato in quel recinto attoriale della smorfia, dei primi piani che annullano il contesto, del corpo chiuso in una scatolina e che non può generare azione, della gag riquadrata per le arene televisive.

Tra tutte le invenzioni, la più riuscita è quella con cui è stato impostato lo stesso lancio del film, il boss mafioso sottoposto a chirurgia estetica che dopo aver richiesto la somiglianza con Leonardo Di Caprio si ritrova con la faccia di Peppino Di Capri. Da questo momento in poi gli equivoci con il “vero” Peppino seguono un canovaccio riciclato evidenziando un aspetto critico di tutto il film: l’assenza di ritmo, e non perché non accada niente, ma per una certa freddezza meccanica della messa in scena che oltre a non decollare mai, non va oltre la semantica dell’avanspettacolo.

L’unica sequenza davvero action è quella che vede la bella Giulia Bevilacqua maneggiare due dildos fosforescenti come fossero Nunchaku, anche questa girata con il rispetto della convenzione parodistica senza una vera e propria “credibilità” fisica. Rovesciamento che avviene per tutto il film, ricco di topoi ripassati con una mano di vernice fresca. Non è quindi sufficiente servirsi di bravi caratteristi napoletani per poi sfruttarli nel carosello di situazioni senza nerbo e quasi tutte derivative nel dialogo tra cinema americano e il patrimonio della nostra commedia. Se lavorare “contro” lo stereotipo deve ridursi alla rilettura esibita dello stesso, il rischio è davvero quello di cambiare tutto per non cambiar niente; processo che tra l’altro diventa evidentissimo nell’utilizzo sistematico delle citazioni (Gomorra, Face off), scialuppa di sicurezza per qualsiasi film che non riesca a trovare uno spazio personale.

Basterebbe recuperare il delirante “Flit” scritto nel ’67 da Corbucci per Mariano Laurenti, certamente molto più inventivo e a briglia sciolta rispetto a quest’ansia di rinnovamento che fa finta di dimenticarsi del pubblico e della sua storia popolare, tra l’altro nient’affatto spregevole.

 

Exit mobile version