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Ničije dete – No one’s child di Vuk Ršumovi – Venezia 71, Settimana Della Critica

Nella primavera del 1988, fra le montagne della Bosnia, viene ritrovato un bambino cresciuto fra i lupi. Gli viene dato il nome di Haris (poi soprannominato “Pucke”) e viene inviato in Serbia, all’orfanotrofio di Belgrado, dove è affidato alle cure di Ilke. Qui diventa amico inseparabile del piccolo Žika e, col tempo, impara a pronunciare le sue prime parole. Ma nel 1992, nel pieno della guerra, le autorità locali lo costringono a tornare in Bosnia, dove viene armato di fucile e spedito al fronte. E una notte, per la prima volta nella sua vita, il ragazzo prende una decisione tutta sua.

Si sente forte il richiamo a “Il ragazzo selvaggio” , il racconto ispirato da un resocondo di Jean Itard e successivamente adattato per il cinema in un noto film di Truffaut, cambia il contesto storico e sociale, ma i riferimenti ci sono.

Nel film di Ršumovic la storia rimane relegata sullo sfondo, lasciando che il tutto si concentri sull’interiorità di Pucke, sul suo percorso di cambiamento dall’orfanotrofio, inizialmente per lui sinonimo di asfissia, ma che poi gradualmente diverrà  casa accogliente nella quale poter ritrovare quella famiglia da cui è stato abbandonato e che mai ha conosciuto.

La sua famiglia diviene innanzitutto Zika, un ragazzino un po’ più grande di lui, il primo che si prende cura di Pucke e che lo difende dai più prepotenti, e il primo che lo abbandonerà nuovamente (nel momento in cui decide di lasciare l’orfanotrofio per ritornare a vivere con il padre squinternato), poi ci sarà il maestro Ilke che si farà suo difensore e che capirà il reale potenziale di crescita del ragazzino, lavorando sulla sua educazione ed insegnandogli le prime parole.

Pucke non scoprirà solamente il mondo all’interno delle quattro mura dell’istituto che lo tiene in custodia, ma anche ciò che sta al di fuori, specchio vero del suo mondo interiore: le prime passeggiate in solitaria per la città di Belgrado sono il segno di un’emancipazione ormai inarrestabile, così come il suo imbattersi in un night club dove ritrova una sua compagna d’istituto che lavora come ballerina e della quale un po’ si è invaghito, segno di una formazione affettiva e sessuale in pieno sviluppo.

Non avendo autonomia di scelta, verrà rispedito dalle autorità locali in Bosnia durante la guerra, dove si troverà a far parte di una milizia e a dover impugnare le armi: proprio in quel momento sceglie per la prima volta di non voler far sua quella violenza dilagante e di rifuggirne, tornando a quella che in fondo è la sua vera origine: la foresta.

Ritorno ad una realtà non più selvaggia di quella vissuta a Belgrado e successivamente in Bosnia,  perchè la foresta torna ad essere luogo accogliente e del tutto inclusivo.

Nonostante il tema non sia fra i più originali, la regia riesce a coinvolgere anima e cuore dello spettatore, senza occuparsi degli aspetti simili o allineati alla pedagogia sperimentale di Itard, ma elaborando il lato più umano ed empatico di questo ragazzino definito come un “animale”.

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