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Parting Glances di Bill Sherwood – Berlinale 66: Panorama, Teddy Award 30

Da trent’anni esatti la Berlinale assegna i Teddy Award ai migliori film queer del festival. Panorama celebra l’anniversario con una selezione di titoli. Tra questi, fresco di restauro in pellicola a cura della losangelina Outfest, ecco riapparire il leggendario Parting Glances di Bill Sherwood, primo film interpretato da Steve Buscemi e soprattutto prima occorrenza cinematografica della pandemia nota come hiv/aids. Uno di quei film molto citati ma poco visti.

Il regista Bill Sherwood, classe 1952, lo girò con pochi mezzi nel 1984 ma trovò una distribuzione solo due anni più tardi. Non fece in tempo a girarne un altro, perché nel 1990 venne stroncato dalle complicazioni della sindrome immuno-deprimente.

Sinossi lampo. New York, un giorno di luglio del 1982. La coppia formata da Michael (Ganoung) e Robert (Bolger) sta per separarsi in seguimento al trasferimento in Africa del secondo. Nell’arco di 24 ore, tra cene, festeggiamenti, amoreggiamenti e accese discussioni, Robert decide di non partire più mentre è Michael, nell’ultima scena sulla spiaggia, a voler partire insieme a Nick (Buscemi), malato di aids.

Non un granché come sceneggiatura. L’atmosfera da village non si discosta molto dalla “Festa per il compleanno del caro amico Harold” (1970) di William Friedkin, e alcuni passaggi sono oggettivamente confusi. Il miglior addentellato con la cultura queer sono le canzoni dei Bronski Beat – a cominciare da “Smalltown Boy” – utilizzate a mo’ di juke box.

L’aspetto più interessante, a posteriori, è proprio come il tema aids viene inserito nel film. Il primo segno è quasi subliminale, un gioco di parole: all’inizio della pellicola Michael attraversa la strada passando davanti a un negozio di «Health and Beauty Aids». Una coincidenza? Improbabile. Dopodiché veniamo a sapere che il personaggio di Buscemi è sieropositivo. Nick incide un messaggio d’addio per gli amici su una videocassetta Maxell, criticando la ricerca scientifica e i fondi che vanno all’industria delle armi. Il momento più toccante resta tuttavia una serie di primi piani degli amici alla festa, mentre la voce di uno di loro li descrive come condannati a morte ignari di esserlo.

Parting Glances non è un film sull’epidemia, né essa è fondamentale nella trama. È in tutta probabilità il primo lungometraggio di finzione a parlarne e lo fa in una maniera incomprensibile agli occhi di oggi, quasi in stato confusionale: forse per via della full immersion in una situazione nuovissima e non ancora etichettata. Per l’assenza di evidenze scientifiche e categorie cognitive diffuse. La scatola per gli attrezzi della pandemia era ancora vuota, nel 1984.

Film a stelle e strisce come “Jeffrey” (1995) e “Dallas Buyers Club” (2014), miniserie come “Angels in America” o la svedese “Torka aldrig tårar utan handskar” (‘non asciugare mai le lacrime senza guanti’, 2012), lo splendido documentario “How to Survive a Plague” (2012) di David France hanno via via aggiustato il tiro, restando comunque ancorati a un periodo ben preciso, quello che va dallo scoppio della pandemia al 1996, l’anno in cui le morti sono radicalmente diminuite grazie alla scoperta della terapia di combinazione (che non è una cura).

Paul Vecchiali ha girato due film importanti a vent’anni di distanza l’uno dall’altro: il virtuosistico “Once more” (1987), costruito per piani sequenza e con tanto di momenti musicali, primo film europeo a toccare il tasto; “Bareback ou la guerre des sens” (2006), bizzarra storia di orsi girata con due lire che ha almeno il pregio di affrontare il tema della vita con hiv post 1996. Lo stesso dicasi per il notevole documentario berlinese “Wiener Ecke Manteuffel” (2014) di Florian Schwewe, centrato su una coppia di long time survivor, peraltro etero.

Il migliore spunto che si può trarre oggi da Parting Glances è offerto dal personaggio di Steve Buscemi, vispo e brillante, quasi un cabarettista off come quello interpretato dall’attore in “Lezioni di vero” (1989) di Martin Scorsese. Il suo è un corpo normale, senza nemmeno le classiche stimmate da immaginario aids anni Ottanta, le macchie rosse del sarcoma di Kaposi. Un personaggio ribaldo, indierockettaro, sopra le righe, estraneo alla svenevolezza o all’autocompatimento. Questo nel 1984. È ora che si torni a parlare di hiv/aids con questo spirito, concentrandosi sul ventennio invisibile di un’infezione invisibile. Quello che ci separa dal 1996.

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