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Quando c’era Marnie di Hiromasa Yonebayashi: la recensione

Quando c’era Marnie, come Il Castello errante di Howl e Arietty – il mondo segreto sotto il pavimento, il precedente film diretto da Hiromasa Yonebayashi, è tra le produzioni Studio Ghibli tratte da un testo letterario britannico. A dichiarare esplicito interesse per il romanzo scritto da Joan G. Robinson è proprio Hayao Miyazaki, prima ancora che Toshio Suzuki, storico produttore dello studio, proponga l’adattamento a Hiromasa Yonebayashi. Cambia l’ambientazione, dalla contea di Norfolk ad un villaggio dell’Hokkaido e se apparentemente la struttura del racconto e i personaggi sembrano rimanere sostanzialmente gli stessi, Anna entra a pieno titolo in quella galleria di figure femminili nel corso di una trasformazione interiore, insieme a Kiki, Sofi e la Chihiro di Spirited Away.
Un cambiamento che coinvolge una progressiva acquisizione di consapevolezza e del proprio ruolo, complice un mondo regolato dai cicli della natura, in contrasto rispetto alla micro-società formativa in cui troviamo inizialmente la ragazza, ma con una sostanza non così esplicitamente panteistica come nei film di Miyazaki. L’essere immersi nei piccoli fenomeni e la scoperta della meraviglia attraverso lo sguardo sono forse più vicini al cinema di Takahata, almeno nell’osservazione dei piccoli rituali quotidiani, qui sbilanciati dalla parte della dimensione rappresentativa en plein air, più volte evocata come filtro tra la realtà e la memoria, dai disegni della stessa Anna, le fotografie ritrovate, fino alla pittura paesaggistica dell’anziana signora, testimone chiave con il compito di dare un senso alla curvatura del tempo, quasi fosse la soggettiva narrante ad entrare nel quadro, delimitando il confine tra forme diverse della rappresentazione, animazione inclusa.

Un animatore dell’esperienza di Masashi Ando, attivo allo Studio sin da Porco Rosso e qui impiegato anche come co-sceneggiatore insieme a Hiromasa Yonebayashi e a Keiko Niwa, non può non aver contribuito ad infondere al film quel senso assolutamente naturale ma allo stesso tempo espanso, nella descrizione dei piccoli epifenomeni naturali, dalla luce che rivela l’essenza delle cose, alla gloriosa resa cromatica dei frutti della natura, quasi fossero un’emanazione soggettiva di una realtà osservata da Anna per la prima volta in tutto il suo splendore.

Allo stesso modo, questa luce quasi accecante che rivela una natura in pieno sole, diventa spleen malinconico, in puro stile Ghibli, quando Marnie compare e scompare improvvisamente in mezzo ad un campo, all’interno di un Silos, mentre l’alta marea avanza o semplicemente entro un riflesso di luce, assumendo certamente la sostanza di un’apparizione fantasmatica ma anche indicando uno slittamento percettivo che per Anna significa affrontare  gli aspetti più dolorosi e crudeli che la natura stessa incorpora.

In questo senso, l’eco di Miyazaki si fa nuovamente sentire nel processo di formazione del personaggio principale all’interno di un film più esile, non necessariamente in un’accezione negativa, ma semplicemente narrativa; ancorato alla scoperta del quotidiano in una forma del tutto privata senza porsi dilemmi più grandi, il senso di ricerca del Se vicino per certi versi alla tradizione Zen, trova improvvisamente risonanza nelle liriche di Fine on the outside, il brano di Priscilla Ahn che emerge alla fine del film, quasi una sintesi della solitudine vissuta da Anna e un invito a rilanciare quell’isolamento come profonda conoscenza di se e delle proprie radici oltre il tempo presente e senza bisogno di nient’altro.

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