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Song of my mother di Erol Mintas – Al Cuore dei Conflitti 2015: la recensione

Ci sono due movimenti che alimentano Song of my mother, opera prima del regista curdo Erol Mintaş: il primo, circolare, caratterizza il desiderio di una donna anziana che, stanca di vivere a Istanbul, in un quartiere rifugio di curdi, vuole tornare al suo villaggio natale; il secondo, verticale, è la volontà del figlio della donna di andare incontro al proprio futuro, di costruire una nuova vita partendo dalla lezione del passato.

Da questa dicotomia si sviluppa il film di Mintaş che, attraverso il rapporto tra Nigar (la madre) e Ali (il figlio), analizza in chiave esistenzialista la questione curda, il significato della “falsa” integrazione e il disorientamento interiore di chi è costretto a vivere in una terra non sua. I due movimenti infatti si intrecciano con la storia, non rimangono sullo sfondo di una vicenda personale. La perdita della radici, la costrizione a vivere lontano da casa spezzano il filo dell’appartenenza e inducono i protagonisti a ricercare la propria identità. Nel confronto tra madre e figlio vi è la discrepanza tra due generazioni destinate a avere un approccio diverso alle cose: la madre ha convissuto con il trauma del distacco, dell’allontanamento, ha subito le costrizioni e le violenze di un conflitto. Il figlio invece conosce il compromesso, è cresciuto in una realtà diversa, accetta l’integrazione nella terra straniera pur sapendo di appartenere ad una minoranza. Due percorsi destinati a prendere strade parallele ma non a separarsi.

Erol Mintaş dimostra una sensibilità non comune nel trattare la delicata materia filmica, assecondando il percorso interiore dei personaggi con una regia che evita le convenzioni e riesce a essere espressiva non alterando i punti di vista. Evocativa in tal senso la prima sequenza, ambientata nel passato: in un villaggio del Kurdistan turco un insegnante sta raccontando ai suoi alunni la favola del corvo e del pavone quando all’improvviso alcuni uomini armati irrompono nell’aula e lo portano via. L’insegnante è il padre di Ali e non è un caso che, una volta insediatosi a Istanbul, Ali insegua le tracce del padre, diventando a sua volta insegnante. Ma a Nigar questo non basta: non si può recuperare se stessi in una terra straniera, confinati dentro un quartiere che assomiglia a un ghetto. Non è possibile guardare al futuro senza fare i conti con il passato. E allora il movimento circolare torna a farsi dominante e finisce per condizionare anche le scelte del figlio che, nel finale, assimila la lezione del padre sulla favola del corvo e del pavone e la reinterpreta alle generazioni future, come a voler sancire la salvaguardia della tradizione e la rivendicazione dell’appartenenza.

Song of my mother è un altro piccolo esempio di come il cinema di frontiera, quello lontano dai grandi circuiti, possa far parlare di sé. Anche con un budget minimo, finanziato in parte dalla comunità curda e da una sottoscrizione on-line, Mintaş ha realizzato un film che non passerà inosservato.

Intanto, dopo aver ottenuto riconoscimenti prestigiosi come il miglior film al Sarajevo Film Festival (edizione 2014) e il Premio Ulivo d’Oro al Festival del cinema europeo di Lecce , è uno degli eventi più attesi della sesta edizione de “Al cuore dei conflitti, rassegna cinematografica organizzata da Federazione Italiana Cineforum e Lab 80 (Bergamo, 25-29 maggio) sui temi dei conflitti sparsi in tutto il mondo.

Per informazioni e programma dettagliato – Al Cuore dei Conflitti sesta edizione

 

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