Home festivalcinema Berlinale-65 Victoria di Sebastian Schipper – Berlino 65 – Concorso

Victoria di Sebastian Schipper – Berlino 65 – Concorso

Il piano sequenza? Roba da pivelli. Sebastian Schipper e il cameraman Sturla Brandth Grøvlen, munito di una Cannon C300 digitale, ci spiattellano un vero e proprio piano-film, due ore e dieci di azione senza tagli, al netto dei titoli. Avete sentito bene: niente montaggio (visivo, almeno), e questo non per infliggerci uno sfiancante esempio di teatro filmato, ma per realizzare un film narrativo con cinque protagonisti nel quale succede un po’ di tutto, c’è una rapina, la polizia interviene massicciamente, volano le pallottole, si prendono in ostaggio i neonati, si piange, si muore, si balla, si corre. Due ore e dieci di vortice.

One Night, One Girl, One Take è la catch phrase scelta per lanciare Victoria, quarto film di Schipper, classe 1968, promettente fin dall’esordio col notturno e proletario “Absolute Giganten” (1999). La trama è presto detta: la venticinquenne spagnola Victoria (Laia Costa), da pochi mesi a Berlino, incontra in un club quattro giovinastri locali – Sonne (Frederick Lau), Boxer (Franz Rogowski), Blinker (Burak Yigit), Fuss (Max Mauff) –, insieme bighellonano in ore antelucane e quando si tratta di sbrigare una faccenda, vale a dire una rapina, Victoria ci sta. Al che hanno inizio danze ben diverse rispetto a quelle che aprono il film in un trionfo ipnotico, giocosamente truzzo, di luci stroboscopiche.

Innanzitutto, per inquadrare Victoria a poco serve citare “Nodo alla gola” (1948) di Hitchcock, “Arca russa” (2002) di Sokurov o anche il recente “Birdman” (2014) di Iñárritu. Il lavoro di Schipper si differenzia da questi celebri esempi di narrazione cinematografica senza soluzione di continuità per due caratteristiche fondamentali: il piano sequenza è autentico, senza trucchi empirici (ogni dieci minuti, Hitch piantava la macchina da presa contro la schiena di qualcuno) né post-produzione digitale (“Birdman”); inoltre il film, col suo dinamismo, punta a un pubblico generalista (addio Sokurov). Si tratta quindi di un tour de force unico per modalità di realizzazione e ambizioni di cassetta.

Le conseguenze della scelta, dogmatica, di fare un unico piano sequenza non sono poche. È come se, scrivendo, si rinunciasse a una vocale, come fece Perec con la e nel libro “La disparition”. Una volta optato per un unico flusso narrativo, regista e cameraman si trovano pressoché sullo stesso piano, architetti di una struttura abnorme e fragilissima che deve reggere per tutta la sua durata, senza errori di sorta. Non a caso, i dialoghi sono per la massima parte improvvisati – parlati in pidgin english, con inserti di berlinese stretto – e le immagini fuori fuoco abbondano. Grøvlen fiata sugli attori come un Dardenne, mentre il quartiere di Kreuzberg (al confine con Mitte), dove si svolge tutto il film con le sue 22 location, resta uno sfondo incerto, semideserto, minaccioso. Per gli attori – e per lo spettatore – un’esperienza immersiva del genere, che soppianta i ritmi della normale sintassi filmica, stimola una sospensione dell’incredulità diversa dal solito, un’apnea che crea dipendenza. Senza il montaggio e le sue magnifiche menzogne, Victoria approda all’ultimo stadio del cinéma verité. Con buona pace dei buoni propositi di sobrietà e verosimiglianza della Berliner Schule e della trilogia berlinese di Thomas Arslan (1997-2001), d’improvviso invecchiati di cinquant’anni.

Di miracoloso, il film di Schipper non ha solo il fatto che funzioni e non dia mai segni di cedimento, ma che riesca pure a stupire nel merito, oltre che nel metodo, a non annoiare mai, a commuovere persino, soprattutto quando il suono in presa diretta cede il passo alle composizioni liriche di Nils Frahm. Merito dell’abilità di Grøvlen, degli eccezionali protagonisti (più André M. Hennicke, impagabile nei panni del boss della mala) e di scene spiazzanti, di grande intensità, come quella in cui Laila Costa si mette a suonare il pianoforte.

Cresciuto alla scuola di Tom Tykwer, Schipper dimostra di saper andare oltre il videogioco e la tecnica fine a se stessa, senza rinunciare al colpo da maestro. Per la cronaca, le riprese sono state ripetute, nella loro interezza, (solo) tre volte. Oltre a «quella buona», le altre due sono l’extra migliore che ci si possa aspettare dall’edizione home video.

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