Home alcinema Amore, furti e altri guai di Muayad Alayan: la recensione

Amore, furti e altri guai di Muayad Alayan: la recensione

Un piccolo, anzi piccolissimo uomo senza qualità, non nato per fare l’eroe, Mousa (Sami Metwasi) finisce, per una di quelle negative congiunzioni astrali che possiamo ancora chiamare jella, in un ginepraio di situazioni che gli tessono intorno maglie sempre più strette al punto da costringerlo, per uscirne, a diventare eroe suo malgrado.
Nulla di nuovo se non fossimo in Palestina e se i notiziari televisivi, mandati a intervalli regolari, non parlassero di negoziati israelo-palestinesi per la liberazione di detenuti palestinesi in cambio di un soldato israeliano rapito.
Nulla di eccezionale, poi, se questo soldato non si trovasse nel bagagliaio della Passat che Mousa ha rubato per far soldi e pagare fior di quattrini al mediatore (una faccia da camorrista degna dei film di Garrone) che lo manderà a Firenze con la maglia della Fiorentina.
Infatti il nostro anti-eroe ama il calcio e non sogna affatto di fare il kamikaze per raggiungere i paradisi di Allah. Molto più terra terra vorrebbe espatriare e gli servono 5000 dollari.
Su Firenze sa poco o nulla, e così in un Internet point va su Google e clicca Immagini. Naturalmente la prima è il David di Piazza della Signoria in tutta la sua possente bellezza, ma sarà anche l’ultima, un rapido sguardo in giro gli consiglia di chiudere in fretta, troppa grazia esplicitata senza veli non expedit.
Black comedy e thriller politico, racconto surreale saldamente piantato nella realtà storica e politica e, a suo modo, racconto di formazione, Amore, furti e altri guai mette fuori gioco le modalità canoniche di rappresentazione dell’emarginazione e della belligeranza cronica, affrancando ogni riferimento politico dal suo potenziale declamatorio.
Qui si torna alle mobili e anonime trame del mondo, chiusi nello spazio caotico e disordinato della vita quotidiana, dove un manovale senza futuro (“Io e mio padre lavoriamo nell’edilizia”, dice al funzionario di polizia per darsi un po’ di aplomb) sogna di andarsene a far fortuna da qualche altra parte.
Mousa ha rubato l’auto, nel bagagliaio c’è il soldato rapito, come e perché un’auto del genere sia stata lasciata incustodita è cosa da non chiedere ad un film che rende reale il surreale e viceversa.
Dunque ora ha lo sfigato palestinese dall’aria un tantino imbambolata ha il prigioniero in mano, e anche quello è un povero diavolo, Avi Cohen (Riyad Sliman) uno che non ha niente di eroico, “ un soldato di scrivania ” ha detto a Mousa che se lo trascina appresso, legato com’è, senza saper che fare e come disfarsene.
Dopo una serie di peripezie e fughe rocambolesche inseguito da tutti, miliziani palestinesi e corpi speciali israeliani, Mousa decide, con rapido guizzo di sopravvivente istinto di conservazione (che è fin troppo facile scambiare per cinico egoismo ma non lo è), di chiedere un riscatto che risolverà i suoi problemi.
Da piccolo, nel campo profughi, ammirava il miliziano che oggi lo sta calciando e gli sta sputando addosso il suo disprezzo dicendogli “ Tu sei una merda”.
Steso a terra, dolorante e bendato, Mousa ha un soprassalto di orgoglio che ne fa una persona vera, molto più vera, nella sua mediocrità, di tante maschere imbevute di deliranti ideologie:
Le merde sono quelli che hanno venduto il nostro Paese e hanno venduto anche noi. Ti conosco da quando ero bambino, nel campo profughi, volevo diventare come te, ma non siamo tutti eroi e non siamo tutti dei combattenti. Io sono un essere umano, e per dirla come diresti tu, anche debole. Voglio solo sopravvivere, voglio che mio padre e la mia famiglia sopravvivano. Se lo vuoi devi pagare”.
E chiede 10.000 dollari per dire dov’è il soldato israeliano.
Schivando stereotipi e formule spettacolari, muovendosi tra documentario, apologo e parabola e sfruttando con grande controllo i meccanismi del comico, Muayad Alayan mette a nudo con eversione efficace le distopie di una condizione umana di cui il bombardamento mass-mediatico ci illude di saper tutto.
E allora ben venga l’uomo comune, né eroe né martire, quello a cui nessuno pensa perché si colloca in quella terra di nessuno che, forse, è la più frequentata nella realtà.
Una regia matura, che ha ben meritato di essere presente nella sezione Panorama della Berlinale 65, questa di Alayan, tornato in Palestina, dopo gli studi a San Francisco, con il sogno di fare cinema sui palestinesi come comunità. Qui ha co-fondato Palcine Productions, un collettivo di registi e artisti audiovisivi con sede a Gerusalemme e Betlemme ed è insegnante di cinematografia presso diverse istituzioni accademiche e organizzazioni del luogo.
Con lo spaesamento biografico ed esistenziale di Mousa, con l’inconcludenza e l’impotenza che lo attanagliano, Alayan mette a nudo la condizione di un Paese in cui lo stato delle cose è così asfittico e umiliante da far sembrare strano ciò che è normale. Mousa è ladro per necessità, diventerà eroe per amore, la vita che fa è quella che le condizioni del suo Paese gli hanno imposto, ma quel piccolo gesto autonomo finale ha potuto farlo, quella scelta di ribellione isolata, né per il re né per la patria, direbbe Losey, solo per la donna che ama, l’ha fatta.
Forse è poco, ma chi può dirlo?

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