venerdì, Marzo 29, 2024

FantasyFilmFest – Dead meat di Conor McMahon (EIRE, Cinemavault, 2004)

Anche prima dell’arrivo del papa e della sua armata di giovinotti ciellini, Colonia era in balia dei morti viventi. Il Fantasy FilmFest ha stazionato al multisala Dom per una settimana, appena sotto alla torre del Mediapark. Un non-luogo situato ai limiti della città, lontanuccio dal Reno ma a un tiro di schioppo dall’autostrada. Il FFF è un azzeccato festival itinerante che ogni anno allieta la Germania (tutta!) per un mese, vagolando a staffetta da Monaco a Berlino con il suo carico di carne morta o perlomeno da macello. Midnight Madness, Focus Asia, French Connection, Get Shorty e, ovviamente, Official selection le sezioni del festival, che quest’anno ha vantato anteprime quali Dear Wendy di Vinterberg-(Von) Trier, Mortuary di Tobe Hooper o il poetico zombi movie francese They came back. L’impostore è piombato su Colonia come falco, di bianco vestito, e se ne è sfottuto di tutte le sezioni eccetto una. A mezzanotte, si sa, va la ronda del piacere scopofilo. Ancor meglio se trattasi di carne morta, sì, ma umana. Meglio ancora se la Repubblica d’Irlanda è fiera di finanziare il primo zombie movie rural-digitale della vecchia Europa, che sbarca a Colonia zitto zitto quatto quatto e strappa applausi a profusione e getta la folla in delirio. I motivi di questo successo scoppiettano come pop corn, o come gremlins fradici. Prima di tutto l’idea di fondo del film, che “europeizza” il fenomeno zombi e lo motiva con nientepopodimenoche la mucca pazza. Altro che indefinito meteorite. Una bella notte si ode un muggito minaccioso, un contadino scende e dal buio sbuca un muso vaccino, con l’occhio pazzo (cfr Steve Zissou). Il contadino muore per pochi minuti, poi si solleva e cominciano le danze. Trattasi di grottesco campagnolo di stampo Bruegel, con violenza demoniaca in salsa Bosch. La risposta irlandese ai ventotto giorni di Boyle, destinati a perdere la battaglia in quattro e quattr’otto. Quelli erano furbetti. Questi, che non sono ventotto ma uno solo, non dopo ma qui e ora, sono viscerali e giocherelloni. La trama è presto detta. Consatazione del contagio, trasformazione di una ragazza da borghesotta ingioiellata (Mike Leigh la farebbe a pezzi) a eroina scassacrani, incontro con stolido pastore e con tre compari di viaggio – il cafone, la moglie taciturna e la bambina ammorbata – notte all’addiaccio e gran finale all’alba, con assedio di una mandria di zombi alle rovine di una chiesa. Salvataggio – apparente – al sorger del sole, con l’arrivano i nostri. Il regista, Conor McMahon, sa il fatto suo. Naturalmente, come le sue vacche, è un ottimo ruminatore, e dà al film un sapor di Romero (la trama è Night of the living dead, con la fuga in campagna che sostituisce l’assedio alla casa), un piglio à la Raimi (la sintassi filmica è quella della trilogia di Evil dead, tra la perizia tecnica del terzo film e il poverismo trucido del primo) e un pizzico di Peter Jackson prima maniera, per l’umorismo e il dinamismo che preludono a un bagno di sangue e di liquidi corporali, sebbene più suggerito che mostrato grazie a escamotage analoghi al Blair witch projecte motivati, va da sé, da ristrettezze di budget. Con buona pace della Repubblica d’Irlanda. Il film è girato in digitale e in dialetto locale stretto. Alcune volte eccede in angoli di ripresa di sghimbescio, raimismi e orsonuellismi. Nel complesso, tuttavia, dopo un’iniziale diffidenza, conduce a un finale pirotecnico e a scene che non fanno rimpiangere gli zombi ben truccati d’oltreoceano. Qua il trucco fa schifo – è, senza esagerare, mero cerone – ma Dead meat sa far sospendere l’incredulità e dispensa tensione, brividi e sghignazzamenti senza avarizia. Exempli gratia: un occhio ingoiato da un aspirapolvere, un’icona del vecchio papa coinvolta in una colluttazione – sì, anche in Irlanda ne hanno le palle piene – uno stuolo di bambini zombi vestiti per una festa di compleanno in maschera… e una muccassassina che arriva nella notte mugghiando, e ne fa di ogni. Squalo spielberghiano, sei ancora qua con noi. Ovviamente la vacca non si vede mai. Qualunque manuale di regia sarebbe d’accordo. Chi vede il film, pure. Colpo di grazia: i “buoni” che salvano i nostri eroi sono conciati come i disinfestatori di The crazies di Romero, e non sono meglio degli zombi. Anzi, se all’inizio si vedono stuoli di vacche chiuse in gabbia in attesa del macello, alla fine questa sorte tocca ai nostri eroi. Nessuna salvezza. Dead meat, squillino le trombe, assume i contorni del primo zombie movie animalista e vegetariano. Al che si becca subito il nostro partecipato consenso. It gets our ya-ya’s out.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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