venerdì, Marzo 29, 2024

Free and Easy di Geng Jun: l’indicibilità delle città Cinesi. La recensione

Geng Jun è un outsider rispetto all’industria cinematografica cinese. Dei suoi tre lungometraggi, solamente il primo intitolato “Youth” è approdato in Italia, in concorso al Festival di Roma del 2009. Rigorosamente ambientati nella provincia di Heilongjiang al confine con la Mongolia, dove lo stesso Geng Jun è nato e cresciuto, descrivono l’abbandono delle zone post-industriali cinesi, dove un’umanità allo sbando emerge dalla persistenza del paesaggio; una nevosa terra di fantasmi circondata da relitti. L’amore dichiarato da Geng Jun per i film di Aki Kaurismäki e per quelli dei fratelli Coen è un’influenza percepibile e rielaborata alla luce di quel cinema che fa del piano sequenza la propria unità linguistica.

Come per molti dei cineasti della dGeneration, a cui Geng Jun appartiene a pieno titolo, l’eredità degli autori della sesta generazione del cinema cinese viene filtrata da una propensione al bozzetto che tende alla centralità dei corpi rispetto al paesaggio, la cui persistenza indica un lavoro sul tempo completamente diverso da quello di Jia Zhangke, se si considera il lungo percorso della Xstream sull’impermanenza e la scomparsa del territorio. La scelta di campo di Geng Jun è quindi quella di un cinema di situazioni, innervato dai toni della commedia nera, i cui tempi vengono rallentati in modo estremo, privilegiando lo scarto al ritmo e al movimento la composizione dell’inquadratura, più vicina alle linee essenziali del cinema delle origini e ad una qualità pittorica del “quadro”, in linea con le scelte “dichiaratamente autoriali” di certo cinema indipendente.

Free and Easy” è ambientato nella città natale di Geng Jun e come i film precedenti del regista cinese, segue il percorso di un esiguo gruppo di persone che vivono di espedienti nell’inerzia di un territorio che è il punto di approdo di una catastrofe economica e sociale senza ormai alcuna connotazione temporale. Una qualità “lunare” dell’immagine che Geng Jun sottolinea con precisa attenzione ai dettagli, alla descrizione di un paesaggio desolato, dove il crinale tra civiltà e la memoria fantasmatica della stessa è confine sottilissimo. Ad alimentare questo continuo spaesamento, oltre ad uno spazio che ha perso qualsiasi funzionalità, i personaggi colti in un continuo stato di transito, creature di passaggio i cui gesti risultano irrimediabilmente sconnessi dalla vita reale, tanto da relegare le occasioni di una basica sopravvivenza in uno spazio che sembra definito da un insieme di segni pre-linguistici.

Nel cinema di Geng Jun c’è molto di quella corrente letteraria emersa in Cina negli ultimi anni e definita come chaohuan. Lo spazio transizionale occupato da villaggi e complessi urbani passati dall’esplosione economico-industriale all’abbandono totale, descrive un contesto sul bordo dell’esperienza allucinatoria, lo documenta benissimo Greg Girard nei suoi reportage fotografici raccolti nella serie “Phantom Shangai“, lo raccontano in modo ancora più specifico romanzieri come Ning Ken, il cui “ultra-irrealismo” è un rovesciamento palindromo di quella tradizione legata al “realismo magico” e che sta ritrovando nuova vita proprio nelle produzioni cinematografiche dell’est Europa. Ultra irrealismo o iperrealismo, in entrambi i casi, l’osservazione di questi spazi incongrui dove non c’è più memoria né traccia, avvicina l’indicibilità del mondo cinese contemporaneo alle strategie di una “science-fiction” radicatissima nel reale, un reale ormai irriconoscibile secondo i parametri economici e sociali coevi.

Zhang Ziyong vende saponi e conduce con se la valigetta utile per qualsiasi rappresentante che si rispetti. Tutte le volte che avvicina un potenziale cliente emerso dal nulla tra il paesaggio a perdita d’occhio e poche case dismesse, porge con l’indolenza e i movimenti di un sicario un campione della merce e invita ad annusarlo da tutti i lati, per sperimentarne le decantate sfumature olfattive. Dopo un paio di sniffate il cliente perde i sensi e Zhang Ziyong può approfittarne, derubandolo di tutto quello che possiede.
Poco distante, un monaco Buddhista procede tra gli esigui nuclei abitativi in mezzo alla neve, cercando di vendere talismani e fortuna benedicente. Nel suo percorso, oltre al rappresentante di saponette, incrocerà i destini congelati di un giovane cristiano in cerca della madre scomparsa sette anni prima; una coppia di poliziotti locali degni delle migliori commedie dell’assurdo e fissati in un autismo gestuale quasi slapstick; una donna che gestisce quella che sembra essere l’unica locanda del luogo, condivisa insieme al marito, operaio addetto alla manutenzione delle strade locali, disperato per la progressiva scomparsa dei grandi alberi che ne delimitano il percorso, letteralmente rubati giorno dopo giorno.

Rispetto al precedente “The Hammer and Sickle are Sleeping”, con cui condivide l’impiego di attori non professionisti e la definizione di un cinema interessato al girare a vuoto del racconto picaresco, più che allo sviluppo tout court dei personaggi, “Free and easy” accentua la dimensione della truffa come unica possibilità di relazione. L’espediente dell’inganno come necessità di sopravvivenza è isolato nell’espressione immediata, tanto da confinare gli oggetti, come la saponetta che passa di mano in mano, nello spazio basico che definisce l’attuazione di un desiderio fisiologico.

L’identità dei personaggi in questo senso non è mai quello che sembra, sottoposta ad un continuo e mutevole slittamento in virtù di quelle funzioni di cui parlavamo, si accorda ai numerosi residui di realtà. Residuale è anche l’ombra del racconto cameratesco, in un cinema quasi interamente declinato al maschile, dove tutte le istanze costitutive vengono rovesciate. Nella confusione di azioni e motivazioni, da un’eclatante impostura di fondo possono nascere momenti di grande e inaspettata empatia, la cui negazione è ancora una volta dietro l’angolo, senza soluzione di continuità.

Da una parte la descrizione naturalistica di un territorio destinato all’oblio, dall’altra la sopravvivenza di gesti fini a se stessi, che tendono a far sopravviere denaro e oggetti di consumo entro i confini di un’organizzazione sociale dove non c’è più niente da comprare. A disinnescare la qualità realistica del primo elemento, così centrale nelle produzioni cinesi indipendenti, la scelta del punto di vista e la fotografia di Wang Qeihua, entrambe legate ad una definizione simmetrica dell’inquadratura, più vicina per certi versi alla storia del cinema di genere, i cui parametri vengono qui dilatati al massimo.

Vicino per certi versi al cinema di Diao Yinan, quello di Geng Jun riduce ulteriormente lo spazio destinato all’intreccio noir, lasciandone in vita solamente una traccia e il continuo ricorso al senso di colpa come condizione metafisica che coinvolge un’intera società. In un film che è caratterizzato dall’uso del suono diegetico, Geng Jun affida i limitati commenti musicali quasi sempre in relazione ai momenti di maggiore vicinanza ai personaggi. La musica utilizzata per tutto il film è quella minimale e post-rock dei Second Hand Rose, una delle band cinesi indipendenti nate nei primi anni zero e tra le poche ad essere parzialmente conosciute fuori dalla Cina.
Cinema di gesti quello di Geng Jun, assolutamente affascinante, dove la “risata”, se emerge, è vicina ad un ghigno soffocato.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è un videomaker e un Giornalista iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana. È un critico cinematografico regolarmente iscritto al SNCCI. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e new media. Produce audiovisivi

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