venerdì, Aprile 19, 2024

Grifi e la filmografia impossibile # 1

Cristallizzare il lavoro di Grifi in date e titoli è un po’ come struprarne l’essenza stessa, porre dei limiti ad un cinema che ha fatto della logica del fluire il suo verbo dominante, difendendo la magmaticità e l’imperfezione del tutto contro la compiutezza di una sola, significativa parte. Non mi propongo di essere esaustiva gettando uno sguardo sulla sua opera, perché, come ha scritto Roberto Silvestri: “La filmografia completa di Alberto Grifi è una missione impossibile. Dispiace per i collezionisti e per gli imbalsamatori ma qui non ci sono pezzi da caccia grossa da appendere al muro. Qui tutto freme, brucia, passa dallo stato liquido a gassoso. Da quello solido in cenere…” (Roberto Silvestri, Il disseppellitore di realtà.Biografia di un videoteppista, in Il cinema contro di Alberto Grifi, Anteprima per il cinema indipendente italiano, Festival di Bellaria 1993.)
Alberto non ha mai dimostrato di credere all’oggetto film come figura compiuta ed auto-limitantesi, la ricreazione artificiale e rassicurante di una perfezione che la vita, del resto, non conosce. Il tantissimo materiale che ha accumulato negli anni, molto del quale andato perso o distrutto, altro ancora girato e poi abbandonato con l’idea di rimontarlo prima o poi, rappresenta l’eredità che la sua concezione del cinema ci ha lasciato: un work in progress continuo, in cui ciò che conta non è l’opera finita ma la creazione della possibilità di operare, nella vita prima di tutto: come lui stesso ha detto: “Occorre avere il coraggio di creare la propria vita, non dei films.” (Note su undici ore di video, registrazioni realizzate con Massimo Sarchielli, dal titolo Anna. Op. cit.)

Cinema e vita hanno rappresentato per Grifi un binomio inscindibile fin dalla nascita, quando il ritmo delle sue giornate era scandito dalle varie funzioni che il tavolo della cucina di casa sua assumeva nel corso delle ore, da teatro dei pranzi frugali a officina maleodorante e confusa dove il padre e la madre si guadagnavano da vivere celebrando il cinema nella sua accezione più bassa e proletaria: stretti tra un tornio ed una fresa ( “perché durante la guerra le fabbriche erano state bombardate, non c’erano più attrezzature, non si trovavano più i macchinari, bisognava farsi tutto da soli.” ) e la macchina da presa con cui giravano i titoli italiani dei film muti. “Insomma, nessuna vocazione, nessuna chiamata, nessuna missione.” (Alberto Grifi: Intervento a Batik sulla informazione autogestita, dagli anni ’60 a poco prima del massacro di Genova: dalla pellicola alle reti telematiche, passando per il videotape. Alias n.48, 9 Dicembre 2000, reperibile sul sito www.albertogrifi.com ) Grifi nasce in mezzo al cinema, ne odora e riconosce gli strumenti ad un livello puramente materiale ( e materialistico, in quanto non alienato e artigianale), e, fin da bambino, inizia quel lavoro di assemblaggio e costruzione dei propri (poveri) mezzi che porterà avanti per tutta la vita, boicottando l’idea che solo i soldi possano comprare quello di cui si ha bisogno..

Non stupisce che tutto il suo cinema, da quando ha iniziato ad interessarsi al mezzo, si sia poi votato allo svelamento di questa menzogna: nella sintassi che inaugura il fotogramma ha una sostanza palpabile, concreta, il mezzo decreta la sua natura tattile svelando le macchie, i tagli, sottolineando le incongruenze, imponendo all’obbiettivo ostacoli di ogni tipo.
Interessato all’inizio più alla pittura e alla fotografia che all’arte cinematografica, Grifi comincia a pensare alla possibilità di sperimentare contro il cinema tradizionale nel contesto romano degli anni ’60, un humus fremente in cui si riconosce la nascente geografia della nuova avanguardia, all’insegna del sincretismo e dell’ibridazione dei linguaggi: molti artisti si interessano al mezzo cinema come strumento per realizzare nuove visioni, da Gianfranco Baruchello a Mario Schifano, nascono i primi esperimenti di Leonardi, Loffredo, Patella, Ferrero. Al festival dei Due Mondi di Spoleto del 1961 approdano i film del New American Cinema Group di Mekas e soci, il Living Thethre sceglie come unica tappa europea Roma. Quella controcultura insofferente alla versione canonica della vita, che diventerà movimento alla fine del decennio, comincia a conquistare i propri spazi, ad aprire discussioni: gli esperimenti letterari del Gruppo 63, il teatro di Aldo Braibanti, di Leo e Perla, Carmelo Bene, le ricerche musicali, già avviate negli anni ’50, del gruppo di Nuova Consonanza.
“Tutti, pur molto diversi tra loro,si cercavano,si aggregavano, in un gioco senza regole se non quelle del gusto di incontrarsi; e producevano una massa psichica che, al quadrato della velocità di questo movimento, liberava molta energia vibrante, adrenalinica, euforica, giocosa, buona o no non lo so.” (Alberto Grifi, Negli anni ’60, ai tempi in cui io e…1996, in Baruchello e Grifi, Verifica incerta, L’arte oltre i confini del cinema, a cura di Carla Subrizi.)
Sono i primi anni ’60 quando Alberto Grifi incontra per la prima volta Cesare Zavattini. Lo ricorda come un buffo e appassionato omone di ottantanni, promotore a quell’epoca dei cinegiornali liberi, che ripeteva ossessivamente e saltando sui divani “ Se volete trasformare il linguaggio cambiate prima la vita, trasformate il mondo e poi lo filmate.” Ma, come dice lo stesso Alberto, solo più avanti capirà in profondità queste parole, e le realizzerà nella sua pratica filmica.
Il cinema fatica a tenere il passo a questi rivolgimenti: “Il mondo cambiava e il cinema rimaneva immobile.Se provava a descrivere la nuova realtà lo faceva rimaneggiando in tutte le salse gli stereotipi del cinema del passato che, del resto, aveva avuto ben altra dignità.” (Duel, intervista a cura di Domenico Liggeri, Dicembre 1995. )
Era un problema che avevano portato alla luce anche i situazionisti, di cui discuteva Cinèthique in Francia, su cui cominciva ad interrogarsi Godard: un arte che si ribella alla società non può assumerne il linguaggio, cambiando solo i contenuti, deve inventarne uno nuovo. ( # 1 Continua.. )

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