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Hannah di Andrea Pallaoro: la recensione in anteprima

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Dentro lo scrigno di una vita al crepuscolo, il corpo segnato di Charlotte Rampling è l’unico accesso che Andrea Pallaoro ci consente. Il suo cinema, più che elidere, nasconde la frammentazione del reale con un processo allusivo, dove le rare tracce disseminate accennano le possibili cause di una disgregazione, osservata attraverso le tracce e le conseguenze sulla vita di Hannah. La distanza emotiva dello sguardo è allineata a quella del personaggio e contamina irrimediabilmente la visione, rompendo ogni possibile legame empatico con i personaggi di contorno.

Il marito incarcerato, il nipote non vedente, la nuora con cui Hannah rifiuta un confronto che potrebbe essere nodale, “da madre a madre” ed infine la scoperta di una serie di foto il cui contenuto celato, come in un noir disfunzionale, è in grado di generare un disperato crollo emotivo.

Pallaoro è attento a definire i contorni di un’incerta città sulla costa Belga evidenziandone l’oscurità degli ambienti e la pervasiva decadenza raccontata attraverso i colori e la luce di Chayse Irvin, che tra Medeas e questo film ha realizzato alcuni videoclip, tra cui “Lemonade”, l’ultima long form per Beyonce.
Il suo occhio favorisce il distacco con un dispositivo di osservazione che include Hannah quasi sempre entro i limiti di una cornice, frammentata dalla messa in abisso di uno specchio, inclusa nello spazio di una finestra.

Mentre Hannah si chiude in un mutismo inespugnabile, Pallaoro la filma, sin dall’inizio, durante alcuni esercizi di improvvisazione libera, pura forma senza il sostegno di una drammaturgia, dove l’incorporazione si trasforma in energia, vero e proprio rituale extra-quotidiano la cui azione, anche mnestica, agisce direttamente sul corpo attraverso la declinazione gutturale e fonetica.
Il “plasma” di cui parla Grotowsky, ovvero il punto medio tra libertà espressiva e un codice riconoscibile, sembra saldarsi nella vita di Hannah nell’inestricabile rebus di una vita intera. Se la voce può esprimersi liberamente solo come “balsamo” durante la terapia teatrale, è il corpo che traduce il dolore della donna, come unico segno mostrabile, perché per Pallaoro calarsi totalmente nell’evento è evidentemente azione che renderebbe palese lo spazio inenarrabile della violazione.
La dimensione eminentemente scopica del suo cinema mette al centro la sofferenza e la persistenza con un realismo vitreo che passa dalla parte di un’astrazione temporale, come accade nel primo cinema di Haneke, in quello di Ulrich Seidl, sguardi della crudeltà la cui direzione sembra irrimediabilmente univoca, al di là e al di qua dello schermo.

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