venerdì, Aprile 19, 2024

I Am Not Your Negro di Raoul Peck – Berlinale 67, Panorama Dokumente: la recensione

Cosa lega Karl Marx a James Baldwin? Prima di lanciarsi in ipotesi azzardate, meglio dire subito che la risposta si chiama Raoul Peck, cineasta che alla Berlinale ha portato due progetti titanici e dagli esiti diametralmente opposti. Il primo è un biopic sul giovane Marx, dall’incontro decisivo con Engels alla stesura del Manifesto. Legnoso e neutro, il film scansa il ridicolo involontario ma merita solo per la ricostruzione dell’ambiente movimentista dell’epoca – oltre che per il montaggio dei titoli di coda con “Like a Rolling Stone” sparata a mille. È come se solo nell’ultima parte della postproduzione Peck dimostrasse di cosa è capace. E parliamo di un film costato dieci anni di lavoro.

I Am Not You Negro ha avuto una gestazione altrettanto lunga, ma sfoggia tutti i pregi di un’opera concepita e realizzata in maniera cristallina. Per quanto non facilissima da descrivere. Non è una monografia su Baldwin, bensì un film di montaggio ispirato a una sua opera incompiuta, “Remember This House”, di cui ci resta una trentina di paginette datate 1979. Tema del saggio-memoir sono tre storiche figure dell’attivismo, tutte vicine a Baldwin e tutte morte ammazzate nell’arco di cinque anni: Medgar Evers (ucciso il 12 giugno1963), Malcolm X (ucciso il 21 febbraio 1965) e Martin Luther King (ucciso il 4 aprile 1968). La voce di Samuel L. Jackson legge estratti dal libro, Alexei Aigui offre un toccante contrappunto musicale e Alexandra Strauss ci consegna un ordito di montaggio in cui al repertorio puro s’inframezzano frammenti televisivi con Baldwin (in particolare un Dick Cavett Show da brividi), una quota minoritaria di girato attuale (volti, città, marine, qualche paesaggio digitale, niente interviste) e soprattutto spezzoni di film americani, dalla “Capanna dello zio Tom” (1927) agli anni Settanta, passando per il primo “Specchio della vita” (1934) e “Uomo bianco, tu vivrai!” (1950) di Mankiewicz, in cui Richard Widmark urla a più riprese la “n-word” in faccia a Sidney Poitier. Una palla da demolizione nello stomaco.

James Baldwin (1924-1987), autore di narrativa e saggistica, è stato un intellettuale importante della sua epoca. Il suo romanzo parigino “Giovanni’s Room” (1955) è un classico della letteratura gay, ma Baldwin non ha mai affrontato in pubblico il tema dell’orientamento sessuale. Il film liquida l’argomento tirando in ballo un report sprezzante dell’FBI e un filmato con Hoover, quasi per rispedire al mittente un’offesa, ma ritrova il tono giusto con una clip molto sottile da “In the Heat of the Night” (1967): il finale al binario con l’addio pressoché romantico tra i colleghi Poitier e Rod Steiger.

A ben vedere, Baldwin non è mai stato nemmeno un autentico paladino dei diritti civili dei neri. Un brano di “Remember This House” pieno di negazioni mette le cose in chiaro, qualificando il suo autore come una figura loquace ma defilata. Un analista. The quiet one, se messo accanto a giganti come Malcolm X, King o Evers (famoso per il suo impegno nella National Association for the Advancement of Colored People). Il 24 maggio del 1963, Baldwin fu tra gli invitati di Bobby Kennedy a un incontro centrato sulle tensioni razziali. Al contrario della collega Lorraine Hansberry non lasciò la sala, ma in un filmato accusa di paternalismo l’allora lanciatissimo politico democratico che aveva considerato possibile, nell’arco di quarant’anni, l’avvento di un presidente nero.

Il fatto che Bobby Kennedy avesse ragione spiega il calibro di un documentario come questo, la cui data di uscita è il 2017. Fuor di metafora, al momento si tratta dell’unico film con un potenziale anti-Trump, e del primo a tracciare un bilancio dell’amministrazione Obama. Oltre a includere i due presidenti nel montaggio, I Am Not You Negro altro non è che un film sugli Stati Uniti, un Paese piagato dalla segregazione razziale e dal suprematismo bianco in modo forse irreparabile. Lo dimostrano non solo le immagini allucinanti raccolte da Peck, ma anche gli esiti di otto anni di potere in mano a un afroamericano. La violenza razziale resta, e il rinculo politico è stato un big bang alla rovescia. In tutto questo, le parole di Baldwin fungono da prisma.

Compatto, commovente e mai scolastico pur calpestando territori anche molto noti, il documentario di Peck parla di mala tempora che non accennano a finire, anzi, ciclicamente s’imbarbariscono. Tornano in mente i titoli di coda del biopic su Marx, con immagini dalle fabbriche in stile Lumière fino al crack e alla crisi. È davvero possibile cambiare il mondo? La risposta, parrebbe, soffia tra pagine che pochi leggono e nessuno sa mettere in pratica.

Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi
Simone Aglan-Buttazzi è nato a Bologna nel 1976. Vive in Germania. Dal 2002 lavora in campo editoriale come traduttore (dal tedesco e dall'inglese). Studia polonistica alla Humboldt. Ha un blog intitolato Orecchie trovate nei prati

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