lunedì, Ottobre 7, 2024

Istanbul e il museo dell’innocenza di Pamuk di Orhan Pamuk: la recensione

Innocence of Memories – Il Museo di Orhan Pamuk e Istanbul di Grant Gee, presentato in prima mondiale a Venezia72 nelle Giornate degli Autori – Venice Days, porta sullo schermo l’ultimo romanzo del Nobel Orhan Pamuk, Il museo dell’Innocenza del 2008, storia di un amore infelice nella Turchia degli anni ’70.
A lungo voluto e per dieci anni curato nell’allestimento dallo stesso scrittore, il Museo raccoglie le memorie dei due personaggi del libro, Kemal e Füsun, in un viaggio tra oggetti, storie e immagini in cui si perdono i confini tra realtà e finzione, e le voci di Pamuk e di Kemal si avvicendano in un continuum narrativo che è racconto e documento visivo, storia dei due amanti e storia della città.
Varcare quella soglia è dunque come entrare nel romanzo, un mondo parallelo che si apre nello spazio mentale del lettore prima che anche il cinema allestisca il suo.
A Grant Gee non rimane che dar corpo e movimento al percorso fantastico, ed è quello che fa, lasciando alla narrazione originale dello scrittore la suggestione profonda dell’invenzione letteraria.
Si respira l’aria della città in quelle sale, un’Istanbul che in corsi e ricorsi torna di continuo nel mondo di Pamuk per incarnare il suo amore viscerale,
E’ un’attitudine costante, quella dell’autore, alla condivisione della tristezza infinita di questa città mutevole, poliedrica, stratificata. E’ l’huzun, il velo che avvolge gli imperi che tramontano, la tristezza “… delle sirene dei battelli che urlano nella nebbia … delle donne con le sciarpe in testa e i sacchetti di plastica in mano … dei gabbiani immobili sotto la pioggia sulle imbarcazioni piene di cozze e alghe …” .
E’ la città descritta nel suo primo best seller, Istanbul. Le memorie e la città ed è anche un autoritratto.
Autoritratto è anche Il Museo dell’Innocenza. Come sempre quando l’artista, parlando d’altro, è sempre di sé che parla, la storia di Kemal e Füsun è pretesto per una singolare biografia parallela.
Se Istanbul. Le memorie e la città era il romanzo di una vocazione, e “diventerò scrittore, io” chiudeva come battendo i pugni sul tavolo, Il Museo dell’Innocenza è il ritorno “da scrittore”, il radicamento definitivo in una patria sempre amata e sempre lasciata alle sue spalle:
Allorché camminavo per le strade nei pomeriggi di primavera l’intuizione – no anzi l’istinto animalesco – che mi nasceva dentro era quello di essere inutile, di non appartenere a nessun luogo di essere sbagliato (…) ciò significava anche fuggire dal senso di comunità, dall’atmosfera di fratellanza e solidarietà della città, dallo sguardo di Allah (…) per rimanere da solo e allora provavo un intenso rimorso“.

Nel 2012 Pamuk ha aperto quel museo in una vecchia casa verniciata di rosso su tre piani, edificio di discreta eleganza costruito nel 1897 all’angolo fra Çukurcuma Caddesi e Dalgiç Sokak. L’aveva comprata nel 1999, era il posto giusto, registrato nella memoria al tempo delle scorribande giovanili per le strade della città.
Definire “museo” quel luogo ha lo stesso margine di imprecisione lessicale che ha definire “romanzo” Istanbul. Le memorie e la città.
Appartenenza di genere in assenza di definizioni migliori, proprio in questa indeterminatezza si apre la possibilità per il cinema di trasferirvi i propri codici.
Chi entra in quella casa non accede solo al deposito memoriale, celebrativo, commemorativo che inevitabilmente ogni Museo a suo modo rappresenta.
Nel Museo dell’Innocenza si esce dalle pagine del libro e si entra in un film.
Luogo unico, cuore magico della città, contiene la lunga storia di Kemal e Füsun, e con lo stesso processo mimetico del cinema ci si illude che vi abbia abitato davvero, con la famiglia, la bella fanciulla tanto amata ma anche perduta per troppo tempo, perché famiglia, tradizioni, rigidi condizionamenti sociali, tutto impedì di essere liberi quando bisognava esserlo.
E ci si convince anche che sia stato proprio Kemal a farne il Museo della Memoria, raccogliendo per anni tutto ciò che conteneva il ricordo del suo amore immenso e infelice, e vivendo per giorni interi in quelle stanze solo per sentire vicino il fantasma di Füsun.
Ma suppellettili, ritagli di giornale, abiti, foto, documenti, oggetti di vita quotidiana, cose comuni che non avrebbero nessun valore se non fossero legati alla sua vita, non parlano solo di questo.
C’è, ed è fortemente intrecciata alla sua, come ad eroe eponimo che dà il nome alle cose, la vita della sua città adagiata sulle due rive del Bosforo, con i suoi colori, odori, sapori, i minareti sullo sfondo che occhieggiano fra cargo e battelli color ruggine che passano e ripassano a sirene spiegate.
Non c’è sviluppo narrativo, la vicenda di Kemal e Füsun si avverte statica, puro pretesto. Più che plasmare l’artista la sua materia è la materia stessa, la Turchia, paese dai forti contasti, divisa fra tradizione e modernità, a plasmare le pagine e le immagini.
In quella terra ci sono uomini e storie di vita importanti per chi le vive, sfuggenti agli altri, finchè un Museo e uno scrittore non decidono di appropriarsene e far sì che tutti vi si possano riconoscere.
Atto d’amore di Pamuk verso la sua città, lo scrittore ne affida alla regia di Grant Gee il compito di renderla visibile anche allo sguardo, così che il colore di quei quartieri di un tempo e le stradine strette della città vecchia dove s’incontravano tanti cani randagi lasci un ricordo che s’intrecci con le pagine del libro.
Kemal/Pamuk e Istanbul hanno ora una lingua comune, di giorno popolata di parole, la notte di sogni e memorie, prima che tutto cambi e diventi definitivamente irriconoscibile.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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