Home Venezia-65 23ma settimana della critica Lønsj di Eva Sørhaug – Venezia 65 – settimana della critica –

Lønsj di Eva Sørhaug – Venezia 65 – settimana della critica –

C’è una sorta di metafisica rovesciata che avvolge l’esordio di Eva Sørhaug. Uno scorcio di Oslo quasi fosse fuoriuscito dalle minacciose simmetrie messe in scena da Peter Greenaway sovrasta l’agonia di un corpo appena investito da un’auto; questa, oggetto iperreale tra gli oggetti, ospita due persone che cercano di decidere sul da farsi; il corpo martoriato della vittima impone la presenza di un’astrazione che riduce la sofferenza ad un gioco di forme e colori. Come una premonizione rovesciata e senza nessuna visione, uno dei due passeggeri dell’auto, una donna, mentre consuma il suo pasto freddo al Lønsj viene travolta dalla distruzione causata da un furgone che spacca la vetrina del locale passandoci attraverso. Una scheggia di vetro penetra la gamba della donna filmata in una postura del dolore su cui Eva Sørhaug insiste, quasi a suggerire un meccanismo che slega la causa dall’effetto a favore di un immagine di pornografia pop. La forma del racconto del resto si impone apparentemente come un giochino ad incastri che del classico film corale prende solamente l’involucro, rinunciando a qualsiasi crescendo, unisono, climax o al contrario, alla collisione. In Lønsj i corpi sono immersi in una luce irreale, vivono un tempo senza profondità reso ancora più asfittico e intollerabile da una forma ironica strisciante, crudele, che si serve delle analogie più triviali dentro il frame e fuori (un montaggio per gag, molto spesso) senza amore per la libertà dei personaggi, tranne per il pianto di Christer o paradossalmente per l’abiezione di Heidi quando lo prende nel culo dal marito, uno dei rari momenti in cui l’estica da discografia degli ABBA che piace alla Sørhaug perde questa patina intelligente e insopportabile. Ma è un attimo, è sufficiente un’invasione di volatili per mostrarci il volto crudele di una natura artificiale e indifferente; un bimbo viene lasciato a prendere il sole sul terrazzo; un uccello si avventa su di lui e con un ellisse tipica che esclude l’orrore più basico dell’immagine, gli mangia la faccia; ma è un gabbiano digitale.

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