Home alcinema Mi chiamo Maya di Tommaso Agnese : la recensione

Mi chiamo Maya di Tommaso Agnese : la recensione

L’imprevedibilità segna il destino di Niki, 16 anni e Alice, 9 anni, sorelle di padri diversi. Un incidente stradale si porta via la loro madre, costringendole a affrontare una prova più grande della loro giovane età. Oltre al dolore, le due ragazze vanno incontro alla separazione: Alice deve infatti raggiungere suo padre negli Stati Uniti mentre Niki, che invece non ha mai conosciuto la figura paterna, viene affidata a una assistente sociale (Valeria Solarino) che si prende cura della sua sorte. Le sorelle si ribellano e decidono di fuggire, compiendo un viaggio di formazione in una Roma borghese e immorale, la Roma delle nuove generazioni insignificanti, perse dietro feste private squallide che ricalcano un po’ il modello de “La grande bellezza”, dietro giochi erotici sul web, feste punk e una voglia di marginalità solo ostentata, mai dichiarata.

Il regista esordiente Tommaso Agnese ha ammesso che lo scenario del film deriva da una ricerca sociologica sui ragazzi che vivono nelle grandi città. Beh , ammettiamolo, sarebbe un grande problema per il nostro futuro se tutti i giovani fossero come quelli descritti nel film, ma l’aspetto che importa a Agnese (e che porta a certe situazioni eccessive) è di sottolineare il vuoto esistenziale, lo strappo che si è creato tra la generazione dei genitori e la generazione dei ragazzi. Non ci sono adulti nel film (sono semplici comparse), i ragazzi sbandano, vanno fuori strada ma non trovano nessuno che li guidi, o quantomeno li aiuti. Ci prova solo la timida e impacciata assistente sociale che però non riesce a entrare nel mondo di Niki.

Nel finale la protagonista cerca una purificazione, una rinascita. E lo fa ritrovando i luoghi della madre, gli spazi aperti, il mare e la passione per i cavalli. Il film chiude il suo cerchio e sulla spiaggia deserta dove, nella prima sequenza, le sorelle giocavano felici con la madre, Niki trova la sua dimensione, l’ancora da dove provare a ripartire. Scene già viste, che scomodano anche grandissimi registi del passato (come non citare il Fellini de La dolce vita, il Truffaut de I 400 colpi, il Ferreri di Storie di ordinaria follia), e che il regista Agnese dimostra di conoscere evitando comunque banali e inutili citazionismi. Ci sono tante convenzioni, è vero, anche a livello di regia (la cinepresa che segue la ragazza e si apre sulla spiaggia) e delle aperture retoriche che forse potevano essere evitate in fase di sceneggiatura, però il film, con i suoi dovuti limiti, centra l’obiettivo di esprimere il disagio di una generazione che appare fragile e indifesa.

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