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Okja di Bong Joon-ho: la recensione

Oggetto d’accusa del film di Bong Joon-ho è sempre l’uomo e il suo operato. Per questo motivo grande spazio è dedicato proprio alla ricostruzione sullo schermo di una cornice sociale piuttosto accurata, anche se spesso si cede alla tentazione di condurla nel terreno della rappresentazione eccessiva, ovvero nel grottesco. La concretezza e l’attualità dell’argomento vengono posti in primo piano, ma Bong è prima di tutto un abile regista e, come tale, perfettamente cosciente delle potenzialità del proprio mezzo: nascono dalla sua creatività tutta una serie di filtri narrativi squisitamente cinematografici attraverso cui poter veicolare messaggi rivolti al pubblico, intrisi di una drammaticità contemporanea che a volte può passare per tono distopico, talvolta invece per fiaba pessimistica, caratterizzata da un lieto fine intriso d’una amara ironia, perché solo apparente.

Tilda Swinton in Okja

The Host, film uscito nel 2006, affronta il tema dell’inquinamento ambientale causato dalla noncuranza umana attraverso la struttura del monster movie, seguendo un po’ la scia sempre attuale lasciata dal film capostipite di questo genere, Godzilla di Honda.

Snowpiercer, tratto da una graphic novel francese, traccia invece con i ritmi del thriller fantascientifico il ritratto post-apocalittico di un’umanità che ha infine raggiunto il tragico traguardo segnato dal surriscaldamento globale, distruggendo ulteriormente l’ecosistema del pianeta nel disperato tentativo di riparare i danni delle generazioni passate. In questo filone dall’evidente sensibilità ambientalista di Bong si inserisce dunque a pieno titolo Okja, un film dedicato ancora una volta, dopo The Host, alla figura di uno strano animale dalle innaturali dimensioni, un “super-maiale” in questo caso, nato dalla sperimentazione genetica attuata dalla multinazionale Mirando, nome che per un’assonanza non troppo casuale ricorda molto quello della Monsanto, il gigante americano degli OGM.

Una vicinanza lessicale che ricorda quanto Bong sia attento a mantenere uno sguardo rivolto verso l’attualità, pur tracciandone i problemi in un contesto alla stregua del fiabesco.
Okja è infatti prima di tutto un film per famiglie: per gli adulti che possono coglierne le suggestioni più problematiche, legate soprattutto ai vizi del capitalismo negli anni del consumo di massa e l’etica che ne consegue; ma anche per i più giovani, che possono arrivare a cogliere questo stesso messaggio attraverso i toni della fiaba che qui è di natura ecologista, quella tipologia di racconto perfettamente allestita da Bong ma già sperimentata con successo da altri autori. Uno di questi è Miyazaki: basti pensare alle bellissime e mature nel contenuto prime sue opere d’animazione di carattere ambientalista, Nausicaä della Valle del Vento e Princess Mononoke.

 

JAKE-GYLLENHAAL in Okja

La società descritta in Okja non poteva dunque essere troppo distante da quella del nostro presente, come è invece quella rigidamente suddivisa in caste e vagoni sul treno della disperazione Snowpiercer. Il film racconta la storia di Okja, uno dei più perfetti maiali geneticamente modificati dalla corporazione Mirando per soddisfare la necessità di cibo di una popolazione in crescita esponenziale. Questo bellissimo esemplare, allevato in Corea del Sud da Mija, giovanissima protagonista umana della favola di Bong, assieme al padre, viene richiamato in America dai dirigenti della Mirando per partecipare ad una sorta di esibizione pubblica delle prelibate virtù dell’animale. Naturalmente si tratta di un’operazione di facciata, studiata dalla dirigente dell’azienda Lucy Mirando al fine di convincere la popolazione ad accettare il suo delizioso prodotto, tentando di stendere un velo sul diffuso stigma relativo agli organismi geneticamente modificati. Asso nella manica della campagna pubblicitaria e di questa grottesca manager, interpretata da una fanatica Tilda Swinton, è la stessa Mija, invitata a New York assieme alla sua enorme compagna animale ma perfettamente cosciente della sorte che la attende.

Certo una fiaba così ben costruita non funzionerebbe senza gli eroi di turno, che in questo caso sono rappresentati dall’Animal Liberation Front, un gruppo terror-animalista che agisce nell’illegalità al fine di tutelare le creature maltrattate dall’uomo.

Tuttavia, per quanto la solidarietà del pubblico sia facilmente concessa a questi ultimi, capitanati da un carismatico Paul Dano, il film non manca di illustrare anche i membri di questa organizzazione con evidenti accenti grotteschi: Bong è attento a sottolineare le loro debolezze e ci tiene a marcare l’eccentricità del loro comportamento (uno dei membri è costantemente denutrito così da lasciare la minima “impronta” sull’ambiente), ridicolizzando così in parte anche le loro intenzioni, che sono buone ai fini della storia. Dall’altro lato troviamo altrettante caricature, supportate dai grandi talenti attoriali della Swinton e di altri due importanti membri del cast, Giancarlo Esposito (il volto noto di Gus di Breaking Bad) e un elettrizzato Jake Gyllenhaal, la cui interpretazione sopra le righe della mascotte della Mirando, una sorta di nevrotico amante degli animali in una ridicola tenuta da safari, si rivela una delle più sorprendenti del film, assieme a quella delle due gemelle Mirando affidata a Tilda Swinton.

Sono infatti due le antagoniste del film, perfette rappresentanti della doppia faccia della corporazione: l’una, la meno brillante, impegnata nelle strabilianti campagne pubblicitarie atte a dare un volto buono e green alla multinazionale, l’altra tutta presa dall’obiettivo industriale, ovvero la produzione di massa di carne ricavata da questi prodigiosi maiali.
Il discorso etico relativo al consumo della carne animale prodotta in catena di montaggio è oggi più che mai attuale: il film, fortunatamente lontano da una spesso ingenua modalità di racconto disneyana, chiede di essere inserito in questo contesto, ma troppo pochi sono i dettagli, ad esempio, relativi alle circostanze per le quali si è arrivati alla situazione critica di partenza perché si possa portare avanti un discorso concreto attorno alla questione, creando un lucido scenario distopico.

Bisogna però riconoscere quanto perfettamente subentri in questa favola contemporanea lo spettro del becero capitalismo dell’uomo contemporaneo, al quale per necessità non si possono sottrarre nemmeno i bambini come Mija.

Ma Okja in definitiva non aggiunge nulla di nuovo ad una questione morale che nella contemporaneità è stata capace di creare schieramenti agguerriti, disposti anche ad atti di violenza per dimostrare la propria ragione. Bong attinge a questo contesto per creare una storia che è assieme fiaba fuori dal tempo e quadro grottesco di una società non più semplicemente onnivora, ma vittima di divisioni ideologiche sempre più radicali e una imposta mala-informazione.

In questo senso, Okja può vantare due volte la funzione di simbolo della polemica tra ideologie testardamente opposte. Da un lato, come opera camuffata da ode fiabesca pro-vegetariana; dall’altro come film di natura ibrida, in quanto destinato prima allo streaming che alla tradizionale sala cinematografica. Un dibattito, quello sulla legittimità o meno della presenza di produzioni Netflix come questa nei concorsi dei grandi festival cinematografici, ancora molto acceso, ma al quale questo Okja sembra fornire una risposta, rivendicando con umiltà la propria natura di assai valido prodotto ibrido. Aggettivo che, come la critica ha osservato, si addice bene al pacifico animale geneticamente modificato che ne è protagonista.

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