mercoledì, Dicembre 4, 2024

Paddington di Paul King: la recensione

Paddington di Paul King è un piccolo miracolo; ispirato ai classici della letteratura per ragazzi scritti da Michael Bond a partire dalla fine degli anni cinquanta, rilegge la britishness dei racconti originali attraverso una serie di riferimenti legati alla storia dell'immaginario satirico britannico e a quello del miglior cinema di intrattenimento.

Michael Bond scrisse il primo libro dedicato a Paddington nel 1958, mentre svolgeva il suo lavoro come cameraman per la BBC. Da quel momento, le avventure dell’orsetto arrivato dal “misterioso Perù”, spedito in Inghilterra dalla zia Lucy con un contenitore pieno di marmellata d’arance e ribattezzato Paddington dalla famiglia Brown che lo recupera nei pressi dell’omonima stazione londinese,  diventarono tra le più amate dai bambini inglesi, per poi sconfinare in altri paesi grazie alle numerose traduzioni.

Interrotta nel 2007, la saga del noto plantigrado aveva debuttato in televisione nel 1975 con una serie prodotta dallo studio FilmFair e trasmessa dalla BBC fino al 79 con una ripresa successiva che si prolungò fino al 1986. Animata con tecnica stop motion collocando pupazzi su sfondi bidimensionali disegnati a mano e tra personaggi ritagliati, perse queste caratteristiche per avvicinarsi alla forma del disegno animato tradizionale nella versione più recente, co-prodotta tra Canada e Francia a partire dal 1997 e intitolata “The Adventures of Paddington Bear”.

Il nuovo Paddington cinematografico nasce appunto  tra Gran Bretagna, Canada e Francia grazie alla produzione di David Hayman (Harry Potter, Gravity) e viene affidato a Paul King, autore di sitcom comiche di buon successo come “The Mighty Boosh” e “Little Crackers”, esperienza che gli consente di ravvivare le avventure dell’orsetto peruviano con uno spirito satirico memore del surrealismo scanzonato di Peter Cook, e dell’umorismo tra avventura e magia delle produzioni Disney ambientate in Inghilterra come “Pomi d’ottone e manici di scopa” e “Il mistero del dinosauro scomparso”, entrambe degli anni settanta.

Una combinazione di elementi legati all’intrattenimento classico per ragazzi, aggiornata secondo coordinate che strizzano l’occhio ai mondi di fantasia di Michel Gondry, Spike Jonze e Wes Anderson senza snaturare la britishness e l’atmosfera originale del progetto.

Rispetto ai colori primari e pastello della serie televisiva anni ’70, elaborazione comunque personalissima delle illustrazioni che accompagnavano le pubblicazioni classiche di Bond, King ha lavorato insieme ad uno specialista della Framestore come Anthony Smith privilegiando una resa cromatica più brillante e una dominante rossa in linea con i gusti contemporanei, cercando inoltre di affidare ad ogni personaggio una valenza specifica, dai colori marroncini di Mr Brown alla casa di famiglia che si apre improvvisamente come quella di una bambola sprigionando il fulgore di un arcobaleno, dove ogni stanza riflette la creatività della signora Brown, a sua volta illustratrice. È un mondo senza riferimenti temporali specifici, abitato dai giocattoli di una volta con cui i figli dei Brown sono costretti a giocare, una stilizzazione “old England” che attraversa  il decòr, i vestiti dei personaggi e gli ambienti di una Londra formato famiglia che quando diventa inospitale, viene quasi sempre osservata a distanza dalla finestra di una soffitta o dalle gargolle del museo di scienze naturali.

Al di là del notevole risultato tecnico ottenuto dalla fusione degli elementi animatronici con quelli del set, entrambi gestiti con sorprendente coesione, quello che colpisce nel film di King è il recupero dello spirito dei libri di Bond attraverso l’invenzione visiva, che non si basa semplicemente sull’impostazione di un “mood” ispirato agli elementi british di cui parlavamo, dalla commedia satirica al nonsense che dai Monty Python ci conduce fino a Rowan Atkinson, come nella sequenza dove Mister Brown è costretto a travestirsi da donna, ma gioca sopratutto sui continui rovesciamenti di senso alla Buster Keaton, dove la naiveté di Paddington nei confronti della funzione degli oggetti, trasforma azioni banali in aperture possibili e straordinarie del set; tutte le sequenze ambientate in casa, oppure quella dell’inseguimento del borseggiatore e l’avventura in metropolitana, vengono elaborate da King con quel senso di fantasmagorica astrazione che trasforma il quotidiano in un nuovo universo.

E se la parte dedicata ai tentativi di imbalsamazione del povero Paddington praticati dalla tassidermista Millicent (Nicole Kidman) è l’occasione per giocare con gli stereotipi del cinema di genere, tra spy movie e il Barry Levinson di “Young Sherlock Holmes”, che era già una formidabile contaminazione tra letteratura, romanzo di formazione, intrattenimento per l’adolescenza, cinema d’avventura e la “factory” di Spielberg, King non perde mai il centro “didattico” del film, elaborando con semplicità un racconto di integrazione sociale e famigliare, sulla base degli stimoli e delle tracce lasciate da Michael Bond, che quando scriveva le prime avventure dell’orsetto aveva in mente l’Inghilterra della ricostruzione e dei flussi migratori del dopoguerra.

Nel film di King questi elementi sono aggiornati attraverso la descrizione dell’ingresso clandestino di Paddington, l’iniziale diffidenza del signor Brown, il sentirsi alieno in terra straniera e allo stesso tempo vengono direttamente citati dalla fonte letteraria originale con i riferimenti alla cultura caraibica veicolati attraverso “London is the place for me”, il brano calypso che introduce l’ingresso di Paddington in città e la band cubana che sbuca all’improvviso nelle strade di Londra; una trovata che si salda perfettamente con l’incipit in bianco e nero, trasformazione di un immaginario esotico in qualcosa di più complesso che va progressivamente verso la cultura dell’accoglienza spiegata ai bambini, un dato non da poco, considerata la recente crescita dell’Ukip in Inghilterra, il partito indipendentista, euroscettico e contro l’immigrazione.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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