giovedì, Aprile 18, 2024

(ri)posseduti 2/3: Il diavolo (non è) in corpo: irresolutezza del cinema esorcistico

The Possession invita a ripensare al cinema esorcistico, soprattutto quello degli ultimi anni; un cinema che non riesce a svincolarsi da un riferimento, più che un metro di paragone, che grava come un monolite: L’Esorcista, naturalmente. Il film del ’73, ha di fatto stabilito dei codici, visivi e narrativi, dai quali nessuno ha mai mostrato l’intenzione di volersi allontanare: famiglia disfunzionale, personaggio centrale quasi sempre femminile, prete in crisi, occhi pallati, “esci da questo corpo!”, ecc. Ne risulta che chiunque maneggi la stessa materia, ne venga inevitabilmente travolto.
L’errore più grossolano, è sempre stato quello di assumere del capolavoro di Friedkin proprio solo l’aspetto apparente, quello più legato all’immaginario da film del terrore, senza raggiungere il cuore pulsante di un’opera che è molto più di una testa che ruota a 360° ed un fiotto di vomito verde ma che è anche più di un catalogo di apparati liturgici e di un pastore con problemi di fede.
Poche sono le pellicole sulla possessione che siano riuscite ad andare oltre la superficie e questo non soltanto per titoli che non fanno segreto d’esser puro intrattenimento, come L’Anticristo di De Martino o Amityville Possession di Damiani, ma soprattutto per ciò che riguarda la contemporaneità del soft horror emozionale di Possessed di de Souza, con un posseduto di genere maschile però; o Il Rito di Håfström, dove torna la figura del prelato tormentato dai dubbi che ritrova la fede quasi per necessità. Su entrambi gravano le ingombranti presenze dei due volti stranoti Timothy Dalton nel primo ed Anthony Hopkins nel secondo: entrambi talmente supponenti, da gigioneggiare dall’inizio alla fine credendo di poter mimare così il miracolo minimale ell’enorme Max Von Sydow.

I due film non lesinano inquadrature e soluzioni tratte esplicitamente dall’irraggiungibile prototipo. Quasi si trattasse di veri e propri tributi, pur se il secondo pare sia tratto dall’autobiografia di un vero sacerdote!
Elemento imprescindibile del cinema esorcistico è proprio la legittimazione di credibilità, meglio se sospinta da cartelli che mirano a far interpretare i fatti narrati come realmente accaduti, che invita all’immersione totale negli avvenimenti descritti, anche quando questi deviano pesantemente verso il surreale, finalizzata ad una maggiore adesione al terrore vero e proprio descritto dalla pellicola.
Stando all’attualità è il caso di lavori come l’esorcistico 2.0 L’Altra Faccia del Diavolo di Bell, in cui, oltre a sottolineare inizialmente la disapprovazione del Vaticano, invita alla fine a consultare un sito per l’approfondimento del fenomeno narrato (nella realtà un banale sito promozionale). Ed è il caso de L’Ultimo Esorcismo di Stamm. Per entrambe le pellicole, riferimenti e derivazioni sono molteplici: l’essere due mockumentary, girati in POV e restituiti come sorta di ritrovamento casuale, pur essendo usciti a ridosso del caso Paranormal Activity, li fa da subito discendere più dal solito Blair Witch Project (va ribadito: piccolo, angoscioso, capolavoro totalmente incompreso e fuorviato), in particolare il primo. Tutti e due si concentrano sulla contrapposizione tra scienza e credenza, articolandosi attorno a due rispettive possessioni, all’apparenza più prossime al caso clinico. Come di prammatica, lo scetticismo che invade i personaggi poco per volta deve lasciare il campo alla resa davanti al Demonio, che fa scempio delle sue ospiti e attenta alla vita di chiunque gli si avvicini.
Sia a Bell che a Stamm, va riconosciuta la volontà di superare le barriere imposte dal genere specifico ma sempre, soltanto, ad un livello prettamente esteriore, non riuscendo ad elaborare nulla che vada oltre la stilizzazione. Soprattutto non avendo alcuna intenzione di rischiare la propria audience, anzi cercando di accontentarla completamente.

Se L’Altra Faccia del Diavolo, pur ribaltando il gioco delle parti, essendo la madre l’indemoniata e la figlia l’impotente testimone, è clamorosamente inconsistente, privo di ogni tensione, totalmente sopra le righe, diluito tra un prologo infinito ed una trama inutilmente tortuosa, il film di Stamm rivela delle buone intuizioni nella figura del protagonista: un autentico reverendo ciarlatano che lucra sulle disgrazie altrui attraverso mezzucci da illusionista, che si vedrà alla prese, proprio in quell’ultimo finto rituale con cui ha deciso di chiudere la sua attività causa rimorso di coscienza, con l’unico caso autentico della sua vita (L’Esorciccio è dietro l’angolo, solo che la vitalità cialtrona, sanguigna e contadina dello sberleffo dell’immenso Ingrassia,questi non sanno neanche dove sta di casa). Il reverendo ed il suo staff, si ritroveranno così coinvolti nelle vicissitudini di una famiglia di poveri fondamentalisti di campagna, con Bibbia e fucile sempre in mano, scossi peraltro anche dalla perdita della madre morta poco prima. Qui la posseduta di turno torna ad essere una ragazzina che da timida ed indifesa, si trasforma in un mostro incontenibile ed anche il livello dell’enfasi cresce a dismisura, man mano che il maligno si rivela in tutta la sua forza, in un girotondo di corse in soggettiva, riprese da capogiro, sangue e grida e con un finale che vanifica quanto di buono c’era nelle premesse.
Vero paradigma, però, per entrambi ed in generale per tutto l’esorcistico anni duemila è The Exorcism of Emily Rose di Derrickson, sopravvalutato legal drama in salsa horror, che ha fatto da filtro al canone friedkiniano per il cinema demoniaco da lì a venire, sancendo al tempo stesso i nuovi stilemi visuali per il genere: tutte le acrobazie, le contorsioni, le urla, il digrignar di denti e le schiene piegate in due all’indietro, aggiornamento ad un estetica, più fredda e più attuale, dei sobbalzi e dei voli a mezza’aria della cara vecchia Linda Blair, sono più un lascito di questo bel film d’intrattenimento spacciato per capolavoro. Soprattutto, scambiato per ciò che non è: una profonda riflessione sull’eterno dibattere tra scienza e coscienza, superstizione e realtà.

Emily Rose muore in seguito ai tremendi rituali cui l’hanno sottoposta i genitori fanatici religiosi insieme ad un prete. La povera ragazza, dopo aver dato apparenti segni di squilibrio, aveva cominciato a mostrare tutte le caratteristiche di una possessione: dal rivelarsi, come detto, praticamente snodabile, al parlare lingue morte ed avere un incontenibile rifiuto per le immagini sacre. La storia verrà ripercorsa durante il dibattimento in aula per il processo che segue alla morte della giovane, in un continuo scontro tra ipotesi che non troveranno mai una vera e propria risposta, nemmeno dopo la sentenza ed il relativo happy end.
Il film ha più di un pregio, ha una confezione lussuosa; interpreti in parte; una trama ben strutturata che, pur senza particolari approfondimenti, pone comunque degli interrogativi sulle possibili derive del credo religioso (vuoi anche perché ispirata ad un noto fatto di cronaca) e, fondamentale, sequenze d’esorcismo molto disturbanti e con una protagonista (Jennifer Carpenter) soggetta ad un tour de force fisico realmente impressionante. Peraltro con un impiego degli effetti molto trattenuto, che restituisce una decisiva verosimiglianza a quanto si svolge sullo schermo. Ma The Exorcism of Emily Rose nonè che un buon mainstream, che irrobustisce e dinamizza l’azione, ma con tutti i limiti del caso. Cioè quello di essere diretto ad un pubblico generalista che, da un lato non potrebbe mai accettare la sporcizia del cinema (anche) horror dei tempi che furono ma che dall’altro richiede a gran voce la paura nuda e cruda, inconsapevole del fatto che nulla potrà mai spaventarlo più della realtà (al punto che tematiche ed immaginario horror sono entrati da tempo, trattati anche con estrema serietà e competenza, persino nell’ambito dell’intrattenimento per ragazzi come i video games). Falsando il senso dello stesso film di Derrickson, che come detto è divenuta pietra d’angolo del genere, le produzioni successive hanno creduto opportuno considerare troppo vecchi e rozzi gli effetti de L’Esorcista, operando su di essi un aggiornamento agli estrogeni: gonfiando cioè le storie di fx sino all’inverosimile, per titillare i gusti di quegli stessi spettatori da multisala di cui sopra.
Potrebbe apparire un ossimoro ma la riuscita di un film dell’orrore non deve risiedere, necessariamente, nel livello di paura che riesce ad infondere, bensì nella capacità di rendere plausibile, attraverso una narrazione coerente, il senso di disagio che tenta di trasmettere. E questo senza mai dimenticare quali sono gli strumenti propri del linguaggio cinematografico (trama, soggetto, regia, montaggio, fotografia, cast, musiche…). In altri termini: un buon film dell’orrore deve essere, in prima istanza, un buon film.

Alessio Bosco
Alessio Bosco
Alessio Bosco - Suona, studia storia dell'arte, scrive di musica e cinema.

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