venerdì, Marzo 29, 2024

Suite Francese di Saul Dibb: la recensione

Sì, perché la cosa funzioni ci vorrebbero cinque parti di 200 pagine ciascuna. Un libro di 1000 pagine. Mio Dio!
Così Irene Némirovsky, scrittrice ebrea nata a Kiev e naturalizzata francese, sul suo romanzo fluviale che sognava composto di mille pagine, una sinfonia, “qualcosa di simile alla Quinta di Beethoven”.
Ma nel giugno del ‘42 c’era Auschwitz ad aspettarla e la sinfonia rimase incompiuta.
Alle due parti compiute, Tempesta in giugno e Dolce, dovevano seguire altri tre movimenti di cui riuscì a scrivere solo brevi note ed abbozzi.
Nel primo movimento, il molto mosso del canone sinfonico, c’era la fuga da Parigi all’arrivo dei nazisti nel giugno 1940, quando masse di francesi si riversarono nella campagna circostante e dovettero adattarsi a vivere con gli abitanti dei luoghi; nel secondo, un andante con moto, c’erano dolcezza e amore, ironia e tragedia, in un intreccio fra destini individuali e svolte tragiche della grande Storia nel microcosmo di Bussy, cittadina alle porte di Parigi, teatro dell’amore impossibile tra Gisèle e Bruno.

Il testo, incompiuto, fu dimenticato fino al 2004, quando Denise Epstein, la figlia che al tempo della deportazione di Irene aveva dodici anni, decise di pubblicarlo. Ne derivò un caso editoriale che, a dieci anni di distanza, ha convinto Saul Dibb a farne un film.
Dibb seleziona personaggi e storie dalle prime due parti del libro e integra il tutto con le note del capitolo successivo, con ciò arrivando ad un adattamento cinematografico che dell’opera mantiene intatto l’impianto ma ne scarnifica lo spessore.
Si avverte, infatti, un sovradimensionamento del plot, un accumulo narrativo che, nell’inseguire la straordinaria pienezza del romanzo, finisce per risolversi in un ingorgo.
C’è una tale molteplicità di sottotrame a cui manca un’adeguata elaborazione che si fa fatica a sentirle come parte di un corpo unico e coeso, e quella coralità multiforme del libro, in cui ogni personaggio è portatore di un risvolto narrativo importante, si riduce a scialba quinta di fondo della storia d’amore in primo piano.
Quel ritratto della Francia vinta e occupata, quel dramma della convivenza con i nazisti vincitori che generò abulica condiscendenza, compromissione, resa di fronte alla legge del più forte, rincorsa del proprio piccolo personale tornaconto, quell’affresco steso a grandi pennellate da cui si staccano a rilievo storie e caratteri, qui manca di mordente, nonostante prove attoriali di indubbia efficacia.
Fra tutte spicca la nota classe di Kristin Scott-Thomas, perfetta nel ruolo di donna dura e intransigente, fiera vestale del focolare domestico, garante del ricordo di Gaston, il figlio partito per la guerra e di cui non si hanno notizie.

E’ il personaggio più credibile, sia quando, da brava capitalista di provincia, esige dai compaesani il fitto sulle sue proprietà senza falsi pietismi, sia quando collabora alla Resistenza per odio contro il Tedesco che sfrutta un territorio che non gli appartiene.
La sua maschera scarna, tesa, decisa, priva di cedimenti, comunica una umanità fiera e vibrante molto meglio delle pose impacciate della nuora, figura ansiosa e immatura, sempre ad un passo dalle lacrime. E’ Lucile Angellier (Michelle Williams), la giovane e infelice sposa di guerra che conoscerà l’amore nell’incontro con Bruno Von Falk (Mathias Schoenaerts), ventiquattrenne ufficiale nazista a cui la musica conferisce un volto umano.
Da civile era stato compositore e la Suite Francese che dedica all’amata è il leit motiv del film, tema sonoro affidato in prima istanza ad Alexandre Desplat , ma poi realizzato da Rael Jones.
Nell’orizzonte asfittico del paese Lucile è vissuta senza mai crescere davvero, dunque l’arrivo di Bruno è la scoperta di una dimensione di vita che può esistere, ma che le richiederà un prezzo molto alto.
Amore impossibile, vissuto in una costante attesa mai appagata, è il centro su cui tutto converge e da cui tutto si dipana, ma è un focus che non illumina abbastanza le scosse segrete dell’anima a contatto con la materia del mondo, ha troppo poca vertigine per essere il racconto una passione tanto coinvolgente e disperata.
Più che ad un doloroso dramma di amore e morte sullo sfondo di tristi tempi, la sensazione è pertanto di essere davanti a qualcosa che somiglia molto da vicino ad una soap opera.
Dignitosa, ben girata, ma nulla più.

Sarebbe stato saggio, allora, dare ascolto alla Némirovsky stessa quando, ponendosi problemi di stile, diceva:
Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile”.

Paola Di Giuseppe
Paola Di Giuseppe
Paola di Giuseppe ha compiuto studi classici e si occupa di cinema scrivendo per questo e altri siti on line.

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