venerdì, Aprile 19, 2024

Un altro me di Claudio Casazza: la recensione

Nel 2011, al festival del cinema di Venezia, veniva presentato non senza clamore ‘Shame‘, secondo lungometraggio del regista e scultore inglese Steve McQueen con Michael Fassbender – che allora fu premiato con la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile – nel ruolo di un trentenne bello e professionalmente affermato tanto potente sessualmente quanto affettivamente impotente, emotivamente compresso e annichilito dalla sua erotomania.

Il film è un saggio di eleganza estetica e sonora, con gli impeccabili interni newyorchesi di design razionale e colori chiari e Bach, Coltrane e Chet Baker che accompagnano il protagonista nell’inferno del suo corpo famelico con la loro musica più aerea e sublime. È uno degli esempi più recenti e radicati nell’immaginario collettivo di un cinema che esplora il tema di un’identità colonizzata dall’esuberanza pulsionale, una dipendenza sessuale guardata, però, senza morbosità o compiacimento pruriginoso, ma con un’acuta consapevolezza dei suoi costi psichici e relazionali.

Un altro me’ non è un’opera di fiction, ma un documentario e il passo in più, rispetto a ‘Shame’, è quello di indagare non solo la sessualità impetuosa e sofferta di chi subisce una dipendenza che svuota ed aliena, ma anche quella che eccede i confini dell’autolesionismo e reca un danno ad altri, impone una violenza, taglia in due una vita.

Claudio Casazza, talentuoso regista milanese classe ’77, entra nell’unità penitenziaria di Bollate in cui un équipe di criminologi, psicologi e operatori sanitari ha realizzato il primo esperimento italiano di prevenzione dei reati sessuali, lavorando sull’arginamento delle recidive: i detenuti che vi hanno partecipato non vengono mai messi a fuoco e, se da una parte è chiara l’intenzione registica di proteggerne la privacy, nondimeno è evidente il portato metaforico di una fisionomia nebulosa, in lotta per conquistare la lucidità necessaria all’esame di realtà e alla comprensione profonda non solo delle proprie responsabilità nell’atto criminale, ma anche del proprio essere insieme ferito e feritore.

Delle storie di Sergio, Gianni, Giuseppe, Valentino ed Enrique, i cinque autori di crimini sessuali che si sono sottoposti alla terapia sperimentale, non si sa molto: il montaggio segmenta e pilota, anche se mai in senso manipolatorio, quanto piuttosto con l’intenzione di mantenere la riflessione al riparo dalla sollecitazione scandalistica e, benché lo spettatore sappia che tutti loro sono responsabili di abusi sessuali su donne, talvolta minorenni, nessun dettaglio minuto della loro vicenda viene fornito ai fini di una ricostruzione cronachistica, ma solo per segnalare un progresso o un regresso nel percorso di responsabilizzazione personale e di riabilitazione sociale.

Questo documentario si fa, in questo senso, espressione di un cinema virtuoso perché de-semplificante e perché cinema virtuoso oggi può essere solo quel cinema che incide frontalmente quello che molti liquidano come vizio, perversione, degenerazione insanabile, ma che è, in fondo, dolorosa possibilità dell’esistenza.

Casazza mette allora da parte l’ego autoriale e blinda lo spazio intradiegetico per mostrarci come infrangere il tabù del mostro non sia atto provocatorio di chi vuole farsi notare, ma operazione necessaria per emancipare tutti – vittime e carnefici – dalla demonizzazione facile e fuorviante, dalla mentalità penitenziaria ed escludente che nulla aggiunge alla comprensione della violenza, delle sue meccaniche e delle sue conseguenze.

Quando una donna, vittima ripetutamente di abusi sessuali, accetta di incontrare i detenuti e di raccontar loro la sua storia, conclude l’incontro con una considerazione: «noi vittime parliamo in continuazione, voi carnefici mai». Dare la parola al ‘mostro’ non significa assolverlo, ma rimettere al centro di una meditazione sulla giustizia l’uomo, la sua fallibilità e una pur minima fiducia nella possibilità di un suo cambiamento. Significa accogliere la sfida della ‘vergogna’ e invitare la società a fare lo stesso.

Carolina Iacucci
Carolina Iacucci
Classe 1988, è dottoranda in letterature comparate e, occasionalmente, insegnante di lettere antiche e moderne. Nei suoi studi accademici, si è occupata di Euripide e Bergman, poeti greci classici e contemporanei, Shakespeare e Karen Blixen. Appassionata di filosofia, cinema e giornalismo.

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