giovedì, Marzo 28, 2024

Un mondo fragile di César Augusto Acevedo: la recensione

Una famiglia composta da cinque persone, una piccola casa e un albero circondato da un soffocante campo di canne da zucchero. È questo il contesto in cui César Acevedo ambienta il suo Un mondo fragile, un onesto e crudo quadro di quella spietata realtà con cui si raffrontano tutt’oggi i contadini della Valle della Cauca in Colombia. Un microcosmo che rappresenta e mette a nudo in modo eloquente le tragiche conseguenze di quell’illusione di progresso tecnologico perpetrata subdolamente dall’industria zuccheraria.

Nei lunghi, e spesso muti, piani sequenza adottati da Acevedo si percepisce una forza ieratica, il defluire del tempo, la sacralità delle azioni, dei rituali placidi e savi in netto contrasto con i ritmi frenetici delle industrie, del tempo che diventa denaro di contro al tempo che scandisce la vita, che accompagna il respiro, il pulsare, lo scorrere lento e definito, come quello della scopa di Alfonso (Haimer Leal) che ripulisce il portico di casa dalla cenere sparsa nei campi dai camion delle industrie.
Il vecchio Alfonso ritornerà in aiuto del figlio malato dopo diciassette anni di assenza, dopo aver abbandonato la famiglia e la fattoria ormai sempre più invasa dalle coltivazioni di canne da zucchero. La sua ricomparsa assumerà i toni di un avvento risolutivo, arricchendosi visivamente di un’iconografia da western fordiano: l’eroe solitario che riemerge dalla natura selvaggia e si ribella ad una civiltà corrotta, ormai priva di identità.

Alfonso è però un eroe silenzioso, disincantato ma risoluto, deciso a consolidare il suo diritto d’esistere, le sue tradizioni, il suo legame indissolubile con la natura, con una terra che è humus, luogo terreno, tangibile, e allo stesso tempo spazio interiore, anima dissacrata da curare e preservare.
Quelli di Un mondo fragile sono personaggi che ci riportano alla mente il mondo rurale dei romanzi di Steinbeck: le odissee famigliari, i rapporti viscerali con la natura, i viaggi della speranza, i culti animisti.

I due anziani, Alfonso e la granitica Alicia (Hilda Ruiz), si identificano vicendevolmente con la quercia secolare che ancora si staglia tra le radure e le lunghe canne che occludono il paesaggio sullo sfondo – come a creare un recinto, una gabbia invalicabile, materialmente e spiritualmente occludente -, fungendo da pilastri dell’esistenza e della resistenza di una cultura, così come la quercia è inclusa nell’immagine come un ultimo pilastro di una natura ormai in degrado.
Ma allo stesso tempo i due anziani si corrispondono e contrappongono, perché nel film vigono delle importanti dicotomie che si riallacciano nuovamente al cinema western di Ford: il confronto tra l’uomo e la donna, tra il dentro e il fuori, tra l’ambiente domestico e la natura selvaggia.

Ancora una volta la cornice della porta di casa funge da soglia liminare, elemento di separazione tra l’interno e l’esterno, lo squarcio di un’esistenza fatalmente duale, ed ecco che si delinea la chiave di volta di una famiglia, come di un popolo intero, condannato all’empasse inesorabile: Alicia è la donna legata alla casa, luogo securitario, spazio embrionale in cui sembra aver incastrato anche il figlio destinato a morire per l’eccessiva inalazione delle ceneri, mentre Alfonso è l’uomo libero radicato alla natura, all’ambiente sconfinato e selvaggio. Il contrasto sarà inevitabile, un’impossibile conciliazione tra le due essenze agli antipodi, soprattutto in un mondo così fragile, così precario, così maledettamente disumano.

Ma è in questo lungo scorrere di fotogrammi muti che ogni artificio scompare: niente musiche, solo suoni ambientali, solo il frusciare delle foglie, il crepitare delle fiamme o le setole raschianti della scopa e il tintinnare delle posate nei piatti. Attraverso la messa in scena si compie ancora una volta il paradosso cinematografico, la restituzione e la rivelazione di un’anima attraverso la finzione, attraverso immagini eidetiche che associano l’uomo alla natura, la quercia secolare a una cultura fragile ma immortale, e finiscono, forse, per pacificare e vanificare quell’eterno conflitto dicotomico.

Andrea Schiavone
Andrea Schiavone
Andrea Schiavone, appassionato di cinema ha deciso di intraprendere studi universitari in ambito cinematografico. Laureatosi in Arti e Scienze dello Spettacolo alla Sapienza di Roma ed attualmente studente magistrale in Cinema, Televisione e New Media alla IULM di Milano.

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