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Une Colonie di Geneviève Dulude-De Celles – Berlinale 69 – Generation Kplus: recensione

Sarebbe riduttivo includere la prima opera di finzione di Geneviève Dulude-De Celles nella cornice generica del racconto di formazione. Questo perché con “Une Colonie” l’autrice Quebechiana cerca di intercettare la mutazione dei sentimenti contrastanti che si affacciano durante l’adolescenza, evidenziando continue biforcazioni nel doloroso processo di costruzione identitaria. Gli elementi sono quelli del bildungsroman, ma la loro definizione narrativa viene frammentata con un’attenzione peculiare ai segni e ai gesti che li generano, senza che questi si cristallizzino nella dimensione certa degli eventi.
La crescita passa attraverso la percezione di un mondo già stratificato e difficile da decodificare, come nella formazione “fallita” del ragazzo “sbagliato” ideata da Willy Russell, ma non si ferma alle traumatiche esperienze di disintegrazione sociale, perché è proprio a partire da queste che rivela le possibilità di riscrittura della propria.

Geneviève Dulude-De Celles cambia spesso prospettiva e punto di vista, in modo sottile e con giustapposizioni che hanno la qualità della folgorazione. Per fare questo, sottrae alla parola la sua funzione denotativa, costruendo dialoghi di verità e prossimità sorprendenti rispetto ai sentimenti dei personaggi, ma con l’intenzione di sollecitare l’invisibile.
Sono allora i riflessi di luce durante una corsa in bici, l’opprimente cassa in quattro diventata improvvisamente tattile durante una festa di Halloween, le analogie tra mondo animale e riconoscibilità collettiva, il continuo deambulare tra natura e sistema sociale, a raccontarci più delle parole i percorsi di Camille, della sorella maggiore Mylia e di Jimmy.

Che il cinema della regista canadese sia fortemente legato a dinamiche sensoriali lo sapevamo già dai suoi cortometraggi e dal personale approccio alle strategie del reale nel suo esordio sulla lunga distanza, “Welcome to F.L.”.

Con “Une Colonie” Geneviève Dulude-De Celles  porta a compimento le suggestioni di un’estetica dalla forma libera e in continuo movimento, realizzando forse uno dei film canadesi più intensi degli ultimi anni, insieme a quelli diretti da Philippe Lesage.

La relazione di Camille (Irlande Côté) con il mondo animale è un fil rouge essenziale pur nella collocazione apparentemente marginale del personaggio, quando la Delude-De Celles comincia a far spazio alle giornate scolastiche di Mylia (Emilie Bierre) dopo i primi minuti del film.

La bambina ascolta le rane, le prende in mano, ci parla, per poi distendersi a fianco di una gallina morta, cercando di percepirne l’ultimo respiro nel contatto istintivo con la terra.
Il pollo determinerà altre simmetrie tra la vita più libera nel Québec rurale e la rete di comunicazioni, affetti ed esperienze durante i processi di socializzazione. 

Tra le prime esperienze di Mylia nella scuola secondaria e per esempio la vita avicola, si delinea l’idea di un adattamento impossibile del più debole, destinato a perire; ma è una percezione soggetta a continue trasformazioni, perché lo sguardo della ragazza non è lo stesso della sorella minore. Mentre Camille rifiuta la scuola ed esprime se stessa nel contatto con la natura, Mylia si trova ad attraversare l’integrazione in un contesto sociale, con il dubbio se scrivere la propria storia oppure costruire un’identità vicaria. Se i polli si uccidono perché costretti a vivere in cattività, sostiene la piccola Camille, Mylia ne desume la spietata filosofia predatoria perché costantemente sul punto di liberarsi da una prigione. Mylia viene spesso inquadrata nell’atto di superare un confine, mentre è indecisa se aprire una finestra e in una sequenza simmetrica, quando posiziona le mani su un filo di ferro che divide un terreno. Sono gesti confinati nella semplicità dell’apparenza, ma anche segni di una potenziale attrazione negativa dal vortice doloroso del passato, questo non viene mai utilizzato come semplificazione dello sguardo, al contrario è proprio la sua persistenza nella dimensione del gesto, ad emergere come indicazione possibile.  

Della vita precedente di Mylia e della sua famiglia prima del trasferimento, non sappiamo niente, tranne attraverso i movimenti, gli sguardi e i gesti della ragazza, mentre entra in uno spazio nuovo, lo misura, lo annusa, lo studia, prima ancora di comprenderne la struttura sociale. 

E il mondo animale fa da tramite per la relazione che a poco a poco si stabilisce con Jimmy (Jacob Whiteduck-Lavoie). Il ragazzo è l’unica opzione rimasta per Mylia quando deve scegliere un compagno di banco, ma già si manifesta come individualità connessa ai cicli della natura, nel rapporto fraterno con Camille e nella dimensione quasi arcaica di cui si servono per comunicare. 
Allo stesso tempo emerge dalla notte per soccorrere Mylia, quando le amiche la estromettono brutalmente da quei rituali di inclusione che nascondono il rovescio peggiore, la delegittimazione.

Jimmy occupa una prospettiva fondamentale nell’andamento del film, esattamente come Camille e Mylia; in questo senso Geneviève Dulude-De Celles non privilegia uno sguardo soggettivo in particolare, né cede alle simmetrie forzate del racconto corale. “Une Colonie” integra i passaggi dell’infanzia e quelli dell’adolescenza in uno spazio convergente che include le dinamiche di genere e quelle identitarie, offrendo una prospettiva molteplice e nient’affatto soggetta a gerarchie. Camille veicola una saggezza istintiva superiore a quella della sorella maggiore, nonostante le sue naturali necessità nel voler ricevere affetto e protezione, mentre l’ombra dell’esclusione e del razzismo, nella complessa definizione di identità culturale e linguistica, attraversa tutti gli adolescenti, inclusi Mylia e Jimmy, mentre vivono la difficile conciliazione tra desideri e realtà. 

Jimmy vive nella comunità Odanak, parte dell’ampia famiglia linguistica Algonchina. Geneviève Dulude-De Celles non ce lo dice esplicitamente, ma assume il punto di vista di Mylia attraverso la scoperta e la penetrazione di una realtà coesistente e sconosciuta. Vediamo insieme a lei un’insegna stradale, dove la parola “Odanak” non è famigliare per tutti. La delimitazione è quella di un confine indicibile. Lo spazio cessa di esser fluido quando quel limite viene esplicitato. Mentre le due sorelle frequentano abitualmente Jimmy rompendo il raccoglimento dei suoi salti solitari sul grande trampolino elastico ai margini della foresta, luogo di incontro, di confronto e di improvvisa gioia; la relazione con le letture scolastiche condivise in classe accende la miccia dello scontro sociale e di alcune dinamiche razziali immerse nella storia del Quebéc.

Quando l’insegnante prepara gli allievi sui libri di Storia attraverso la prospettiva coloniale, con l’intenzione apparente di attivare un disinnesco consapevole, le parole di Bartolomé de Las Casas non sono sufficienti per Jimmy; la riduzione di uno sguardo comprensivo e la violenza razzista di un compagno generano lo stesso tipo rifiuto, di fronte ad una riduzione inaccettabile. Se l’insegnante non prende provvedimenti rispetto alla curiosità volutamente provocatoria di un allievo sul fatto che “gli indiani” praticassero o meno orge collettive, ad esser punita sarà la risposta di Jimmy, la cui violenza espressa sul piano fisico, corrisponde al suo rifiuto di scendere a patti con la parola. Proprio con questa i tre personaggi principali di “Une Colonie” vivono un rapporto conflittuale, la soffocano, la portano altrove, mentre lo sguardo, il corpo e il gesto si esprimono contrastandola.

Il filo sottile che determina il passaggio dall’accettazione passiva dei codici di una micro società predatoria all’età del consenso, è magistralmente descritto nella lunga sezione che precede e conduce alla festa di Halloween. La preparazione, quasi un rovesciamento prospettico rispetto al recente corto della Dulude-De Celles intitolato “Fuck You Éric”, dove un ragazzo e una ragazza si depilano gioiosamente a vicenda prima di partecipare ad una festa in maschera, concentra in una serie di immagini di semplice potenza visuale, le contraddizioni tra gesto indotto e volontà, nella sistematica separazione di ruoli e generi. Il desiderio sembra scomparire dal volto di Mylia dal momento in cui il rituale del travestimento lo rappresenta schematicamente. Difficile render conto in questa sede della ricchezza drammaturgica di questo momento, ma ci è sembrato che la regista canadese sia riuscita a sintetizzare tutti gli elementi che dall’attesa fino alla fine di una festa, costituiscono il complesso intreccio di sentimenti che regolano la propria posizione nel mondo, tra alterità e negazione, generi e ruoli. 

Alla tendenza causale e spesso cinicamente indirizzata di alcuni racconti di formazione, Geneviève Dulude-De Celles preferisce un’innegabile via politica, legata all’acquisizione progressiva della propria soggettività biografica. La storia di Mylia comincia allora dal rifiuto ad omologarsi agli stimoli culturali e sessuali indotti; la sequenza dell’amplesso interrotto nei bagni della festa passa da uno stato all’altro, confonde i sentimenti, attrae e respinge, commuove e disgusta, fino a quell’abbraccio tra la ragazza e una compagna travestita da gufo, quasi un salto straniante dalla falsità del reale alla verità della maschera, attraverso l’esperienza di un rituale che comunica in forma mediata con le creature del bosco. Forse è l’unico momento in cui l’elemento simbolico della fiaba attraversa il film della regista canadese, confermato dall’apparizione improvvisa di Jimmy alla festa, vestito come un principe guerriero. Ma è tutto sospeso nella fugacità del riflesso e nella fotografia fenomenica di Léna Mill-Reuillard ed Étienne Roussy, dove le appropriazioni soggettive cambiano e si trasformano da uno stato all’altro, da un personaggio all’altro.

Questa sovrapposizione di segni è ricorrente, fino a diventare flagrante nei due abbracci che uniscono prima Mylia e Jimmy, poi i genitori della ragazza osservati dal vetro della macchina. Due separazioni, ma di segno opposto, che arricchiscono la visione della ragazza insieme a quella dello spettatore, con un carico di sentimenti chiarissimo e allo stesso tempo impossibile da decifrare con una sola frase.

Geneviève Dulude-De Celles, che si serve di strumenti in contrasto con l’assorbimento dell’immagine al predominio della parola, lascia che lo sguardo apra molteplici significati. L’immagine vive e pulsa continuamente di segni disposti al suo interno e nella relazione con le altre. Un equilibrio difficilissimo che ci sembra non sconfini mai nel simbolico o nella dimensione autoreferenziale dell’autorialità. 

I confini immaginati e visualizzati da Mylia, quelli superati costantemente dalla sfrontatezza di Camille e le foto di giornale conservate gelosamente da Jimmy in un quaderno che ricostruisce le sue radici attraverso l’esperienza fotografica altrui, sono tracce contenute nella “fertilizzazione” forzata della politica coloniale, ma che tornano ad esser libere di abitare nuove soggettività.  

La prima volta in cui sentiamo la parola Abenaki è nella lettera che Mylia invia a Jimmy dopo il trasferimento in una nuova città. Una cartolina appena comprata è l’occasione per raccontare al dolce amico la prima lezione di Geografia sull’Africa e l’Europa coloniale e sulla conformazione multiculturale della sua classe. Mentre la ragazza procede a vuoto tra il campo sportivo della scuola e il giardino che lo circonda, lo sguardo in volo plana sul gesto straordinariamente libero e immaginario di una pistola saldamente tenuta in mano dalla parte del manico: “Dovresti vedere i miei compagni di classe, vengono dall’Africa, dalla Spagna, dalla Francia e dalla Grecia, ma nessuno è come te. Mi hanno chiesto da dove venissi e ho risposto, dalla foresta. Gli ho detto che il mio miglior amico è un guerriero Abenaki. Nessumo mi ha creduta e un ragazzo mi ha detto che ero pazza. Se dovessi diventare come qualsiasi altra persona, per favore, uccidimi

A Rachèl, che è un po’ Camille, un po’ Mylia, un po’ guerriera Abenaki (M.F.)

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