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Le Graine et le mulet di Abdellatif Kechiche – Venezia 64: la recensione

Quello di Abdellatif Kechiche è un cinema che rivela una forte vocazione performativa, performance che non si sbarazza del racconto, ma che raccoglie elementi di affabulazione quotidiana e li trasforma nel flusso della ripetizione popolare, anche in termini musicali.

Le Graine et le mulet è la terza regia del regista franco-tunisino, visione incollata alla comunità franco-araba di Sète e alle due famiglie di Slimane, operaio di un cantiere navale a rischio di licenziamento, il cui peregrinare per la città e tra due universi affettivi è una linea libera (in)diretta che Kechiche traccia con naturale ossessività; niente a che vedere con la chirurgia dei Dardenne molto più interessati ad ancorare i personaggi alla materia dentro e fuori l’inquadratura; il pedinamento per Kechiche è la tessitura insistente e progressiva di un racconto nomadico che si elabora come vera e propria performance musicale; vengono in mente i Gadjo Dilo di tutto il cinema di Gatlif, a mio avviso più capace di cogliere le derive astratte dell’improvvisazione come mutazione di uno spazio/corpo slittante e in transito.

Il cinema di Kechiche, ha un’anima musicale molto più ancorata al sistema del racconto popolare; questo fa di Le Graine et le mulet un film in bilico tra un dispositivo della narrazione tutto sommato classico, nonostante il trucco della realtà, e la forza di liberare il racconto con una rivelazione dello spazio soggettivo selvaggia e disancorata dall’apologo; è un contrasto che si percepisce anche nell’ultima mezz’ora, dove lo sguardo vive l’incertezza di abbandonarsi ad una libertà visiva estrema avvicinandosi alla sensualità goffa e vitale di Hafsia Herzi, oppure elaborando frammenti frequentativi del racconto.

La partitura è indubbiamente complessa, e si libera davvero nella chiusa musicale di Slimane che corre verso un destino negativo che non esiste più.

 

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