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Wilde Maus di Josef Hader – Berlinale 67 – Concorso: la recensione

Bizzarro e riuscitissimo film di debutto per il cabarettista cinquantacinquenne Josef Hader, Wilde Maus – che deve il titolo a un’attrazione del Prater di Vienna – sorprende con un mélange di commedia nera e riflessione sociale, senza mai scadere nell’autoipnosi tipica dei comici che si sdoppiano davanti e dietro la macchina da presa. A tratti, sembra un film di Woody Allen interpretato da Mel Brooks. Uno di quelli vintage.

La pellicola, questo si può dire senza rischio spoiler, si apre con un licenziamento: il critico musicale Georg (Hader) viene lasciato a casa perché troppo costoso rispetto alle nuove leve. Non lo dice alla moglie Johanna (Hierzegger), psicoterapeuta, e si lancia sul doppio binario della ricerca di nuovi introiti e della vendetta, tremenda, fantozziana vendetta ai danni di chi gli ha tolto la busta paga. Il primo filone ricorda “A tempo pieno” (2001) di Cantet, pur senza calcare la mano del dramma. Il secondo vira sorprendentemente al buddy movie appena sulla scena compare lo strepitoso Georg Friedrich nei panni di Erich, ex bullo che campa come può. Lo stesso Friedrich che già alla Berlinale del 2014 aveva portato una commedia fuori dagli schemi, quell’“Über-ich und du” di Benjamin Heisenberg che lo vedeva affiancare lo psicologo ottantenne André Wilms. Anche qui il suo “criminale da strapazzo” fa scintille insieme allo “schlemiel” Hader, e per pura coincidenza anche questo film è graziato da Maria Hofstätter – attrice feticcio di Ulrich Seidl – in un ruolo minore ma memorabile.

Sarebbe tuttavia riduttivo definire Wilde Maus un film d’attori. La regia di Hader si fa sentire fin dall’inizio, con una lunga inquadratura che sfiora il piano sequenza serpeggiando nella redazione di un giornale, e l’intera narrazione si basa su una composizione del quadro convincente, solida, mai vanitosa – malgrado la splendida fotografia di Xiaosu Han e Andreas Thalhammer – né tanto meno schiava di volti e mossette.

Wilde Maus è un film che nella semplicità della sua costruzione riesce a creare atmosfere grandiose, tra il Prater e le nevi, a toccare temi delicatissimi come la disoccupazione e il desiderio di un figlio, e persino a fare un ragionamento a doppio taglio sul mestiere di critico musicale. Non a caso, le migliori scene di Georg sono punteggiate di brani colti, da lacrime vere – ulteriore pregio di un film che assesta un bel cazzotto in faccia alla gentrificazione del lavoro e della cultura.

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