sabato, Aprile 20, 2024

13 Assassini di Miike Takashi: una tradizione di sangue e fango

Che cosa aspettarsi dal faccia a faccia di Miike con la tradizione pura? Di primo acchito – memori ,forse, del magmatico Izo (2005) che si cibava in modo imprevedibile di stralci di jidai geki – verrebbe da dire: un ribaltamento a 360 gradi con dissacrazioni à gogo. Miike invece sbalordisce tutti per sobrietà ed equilibrio. Il prolifico artigiano che spazia tranquillamente – sempre accompagnato dalla sua eccentricità – dallo yakuza eiga all’horror, con 13 Assassins giunge all’opera spartiacque della sua carriera, e probabilmente realizza il suo capolavoro (l’altro candidato sarebbe A Big Bang Love, Juvenile, 2006). Con i suoi precedenti film, ci aveva abituati a movimenti narrativi centrifughi, ad uno sguardo decentrato che procedeva per accumulo, mentre ora sembra approdato ad un tale livello di rigore, puntualità ed infine purezza formale, da non avere nulla da invidiare ai grandi vati del jidai geki (dramma in costume, ambientato solitamente nel periodo Tokugawa). In questo rifacimento (l’originale omonimo di Eiichi Kudo è del ‘63), Miike dimostra sì grande riverenza verso i topoi stilistici del genere, ma al contempo, non soffre di soggezione rispetto ai maestri ed elabora articolate strutture visive in piena scioltezza. All’algido distacco di Kudo, che ordina le immagini in serie di campi lunghi, Miike preferisce la partecipazione, la condivisione degli ideali e delle passioni della sua schiera di guerrieri, ricorrendo a piani stretti e movimenti di camera ora morbidi ora repentini, sempre al servizio della funzione drammatica. Anche le proteiformi perversioni miikiane sono rese organiche agli snodi narrativi (senza farle diventare protagoniste assolute, come sovente accadeva in passato); dal brano di truculenta body art con una cadaverica donna mutilata, al sadismo ludico delle abominevoli pratiche di Naritsugu.
Sul fronte contenutistico, Miike intensifica la critica politica, chiamando in causa quel fondale oscuro che soggiace sotto ogni forma di potere. La Giustizia è da considerarsi un concetto bandito: il manipolo di assassini guidati da Shinzaemon è a tutti gli effetti l’unica soluzione per sanare la smodata anarchia del potere. Il crimine politico è il contrappasso dell’abuso di potere perpetrato dai rappresentanti ufficiali: entrambi compongono il mosaico della politica, nella sua sostanziale irrazionalità. L’impossibilità di percorrere vie più lecite, è ben esplicitata dal primo dialogo fra Doi e Shinzaemon, quando quest’ultimo, dopo aver proposto candidamente di dimettere Naritsugu, viene messo al corrente dell’infinità di problemi che potrebbe comportare una manovra del genere. Dunque, se è ancora vero che la guerra è la prosecuzione della politica con altri mezzi, il massacro totale – dagli echi inevitabilmente a là Peckinpah – della seconda parte del film è il naturale prolungamento del discorso politico espresso nella prima parte. La sua diametrale traduzione in fendenti, sangue e fango.

Diego Baratto
Diego Baratto
Diego Baratto ha studiato filosofia all’Università Ca’ Foscari di Venezia. Si è laureato con una tesi sulla concezione del divino nella “Trilogia del silenzio di Dio” di Ingmar Bergman. Da sempre interessato agli autori europei e americani, segue inoltre da vario tempo il cinema di Hong Kong e Giappone. Dal 2009 collabora con diverse riviste on-line e cartacee di critica cinematografica. Parallelamente scrive soggetti e sceneggiature.

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